Gianfranco Pasquino – PERCHÉ SONO SCOMPARSE LE CULTURE POLITICHE IN ITALIA

(estratto da Paradoxa 4/2015) Quella fatidica notte tra l’8 e il 9 novembre 1989, il muro di Berlino crollò non soltanto sugli impreparati partiti politici italiani che avevano dominato la storia della prima lunga fase della Repubblica, praticamente cancellandoli, ma si abbatté anche sulle loro, evidentemente già diventate evanescenti, culture politiche. Chi, già sappiamo che continuano ad essere pochissimi, rileggesse gli Atti della Costituente, noterebbe immediatamente quanto significativi, importanti, produttivi sono stati i riferimenti alle maggiori culture politiche del tempo: liberalismo, cattolicesimo-democratico, socialismo e comunismo, con cenni an-che al pensiero federalista. Molti articoli della Costituzione portano chiara l’impronta di ciascuna e di tutte quelle culture politiche. Se nell’art. 11 si trovano echi del federalismo, il monumento alle culture politiche è rappresentato dall’art. 3 nel quale il lessico offre l’esempio migliore di come i Costituenti volessero evidenziare il pluralismo delle loro culture e la loro convergenza su quello che molti considerano il principio predominante della Costituzione italiana. Questo principio non è, a mio parere, l’eguaglianza in quanto tale, ma il compito affidato alla Repubblica, ovvero ai cittadini, di rimuovere gli ostacoli per dare vita ad una convivenza basata sulla partecipa-zione. La menzione dei ‘cittadini’ richiama la cultura politica liberale e, in

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Marco Valbruzzi – CINQUE TESI SULL’ASSENZA DI CULTURE PARTITICHE IN ITALIA

(estratto da Paradoxa 4/2015) PREMESSA ALLE TESI In mezzo alla caotica politica italiana, c’è una certezza sulla quale può facilmente convenire l’opinione della maggior parte degli studiosi e dei politici: nel corso degli ultimi venticinque anni non si è vista traccia, tra i mutevoli ed effimeri partiti politici, di una qualsivoglia forma di cultura politica. Chi ha provato ad elaborarne una, in realtà pochi intellettuali isolati e inconcludenti, ha dovuto ben presto ammettere la propria sconfitta. Questo è il dato di partenza da cui prende spunto il numero di questa rivista, vale a dire la scomparsa o – come meglio preciserò a breve – l’assenza di una visione culturale nella politica italiana. Com’è emerso da molti degli articoli inclusi in questo fascicolo, la grande slavina che, tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, ha travolto l’intero sistema partitico della prima fase repubblicana (1947-1992), ha finito per lasciare dietro di sé soltanto macerie e pochi e del tutto fugaci tentativi di elaborazioni culturali alternative. Tra questi pochi sforzi, finiti purtroppo in un nulla di fatto, va certamente incluso il breve tentativo «ulivista» di inserire il centrosinistra italiano all’interno della discussione che a metà degli anni Novanta aveva

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Sergio Belardinelli – LA PRODUZIONE CULTURALE NELLA CHIESA

(estratto da Paradoxa 4/2013) Prima di affrontare il tema specifico che mi è stato assegnato – La produzione culturale nella Chiesa – mi sia consentita una considerazione preliminare a proposito del titolo generale: Intellettuali e cattolici. Confesso che qualche volta la parola intellettuale desta in me qualche perplessità. Eppure non ho alcuna difficoltà a qualificarmi come intellettuale cattolico. Sebbene le etichette non mi piacciano, è un’etichetta che non ho mai disdegnato. Del resto ognuno di noi è quello che è; difficile distinguere la parte di noi che dipende dalle convinzioni della nostra fede religiosa e quella che dipende invece da inclinazioni o considerazioni d’altro tipo. L’unica cosa certa è che siamo un’inestricabile mescolanza di fede, ragione, passione, pregiudizi e altro ancora, solo astrattamente separabili tra di loro. Ne va in ultimo dell’unità della nostra persona. Per questo nel dibattito pubblico dovrebbe contare la bontà degli argomenti che ognuno è in grado di mettere in campo, non certo l’etichetta ideologica che appiccichiamo loro addosso. Sennonché, in Italia, è proprio questo che, per cattolici e laici, sembra risultare estremamente difficile. «La mia storia è quella di un uomo che ha iniziato la sua vita credendosi un autentico cattolico e un autentico liberale,

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Redazione Paradoxa – MISURARE IL VALORE AGGIUNTO CULTURALE

Il 16 febbraio, presso la sede della Fondazione Nova Spes, si è svolto il seminario dal titolo “Misurare il valore aggiunto culturale”. Hanno partecipato: Stefano Bancalari (Fondazione Nova Spes), Luigi Cappugi (Fondazione Nova Spes), Pellegrino Capaldo (Associazione Amici Sturzo), Maurizio Carrara (Unicredit Foundation), Caterina Cittadino (Fondazione Astrid), Melina Decaro (Fondazione Adriano Olivetti), Antonio Fazio (Fondazione Generali), Stefania Mancini (Fondazione Charlemagne, Assifero), Laura Paoletti (Fondazione Nova Spes), Laura Pizei (Fondazione Craxi), Stefano Semplici (Fondazione Nova Spes), Pierluigi Valenza (Fondazione Nova Spes), Stefano Zamagni (Fondazione Nova Spes). Il PIL è un parametro d’osservazione fondamentale del livello di produttività di un Paese e, per quanto se ne possano evidenziare difetti e manchevolezze, nessuno oggi oserebbe ignorarlo o negare la realtà economica che esso rappresenta. Eppure, ha ricordato Stefano ZAMAGNI nella sua relazione introduttiva, non è sempre stato così: prima degli anni Venti l’indice PIL non esisteva; ed è stato costruito in funzione di necessità specifiche, conseguenti alla situazione venutasi a creare dopo la Prima Guerra Mondiale (in particolare per rimarcare la superiorità dello sviluppo economico dei Paesi capitalisti su quello dell’Unione Sovietica). L’esempio intende rendere lampante che persino nella più oggettiva delle misurazioni, si nasconde un elemento marcatamente soggettivo, che non inficia affatto

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Laura Paoletti – IL MOMENTO DI OSARE

(editoriale di Paradoxa 4/2010) Qualche numero fa, nell’introdurre la riflessione sul rapporto tra capitale e cultura (Paradoxa 1/2009), ci chiedevamo se trattare di argomenti simili in tempi di crisi economica non avrebbe fatto lo stesso effetto dell’infelice battuta attribuita a Maria Antonietta: il popolo ha fame e, invece che al pane, si pensa alle brioches. Scegliemmo di correre il rischio. Non potevamo immaginare, allora, che la questione della commestibilità e dello scarso valore nutritivo della cultura sarebbe divenuta il Leitmotiv dell’acceso dibattito in corso sulla legittimità dei drastici tagli al comparto culturale: dibattito non propriamente esaltante, per la verità, che in certe sue approssimazioni (e talvolta cecità) nei confronti di quale sia davvero l’oggetto in discussione conferma l’opportunità della scelta di allora. L’intuizione che fosse produttivo lavorare su una definizione teorica più precisa di ciò che provvisoriamente chiamavamo “il capitale cultura” si è venuta nel frattempo irrobustendo in un progetto strutturato, del quale i contributi e gli studi presentati in questo numero rappresentano una prima tappa. Non presentiamo risultati definitivi, ma una direzione di ricerca e alcune ipotesi di lavoro che richiedono ora un confronto più ampio, non soltanto nel senso dell’allargamento delle competenze disciplinari (che pure è indispensabile), ma

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