Tavola rotonda “Destra. Cultura, valori, identità”, 17 novembre
Roma, 17 novembre 2022, ore 16.30 Tavola rotonda a partire da Paradoxa 1/2022, a cura di Dino Cofrancesco
Roma, 17 novembre 2022, ore 16.30 Tavola rotonda a partire da Paradoxa 1/2022, a cura di Dino Cofrancesco
(estratto da Paradoxa 2/2020) Sollevare la questione dell’identità italiana è come scoperchiare il vaso di Pandora pur conoscendo in anticipo il nefasto finale previsto da quell’antico mito greco. In altre parole equivale ad un gesto suicida, comunque masochistico. Oppure significa adempiere al compito eminentemente filosofico di preferire sempre e comunque la verità a tutto il resto, incluso l’amor patrio. Insomma, l’obbligo di dire come stanno davvero le cose. In ogni caso, chiamati a rendere conto di cosa significhi essere italiani, il velo cade e il re resta nudo. Dunque abbiamo cessato di essere una nazione. Difficile stabilire il quando, la data esatta, il periodo preciso. Anche dopo l’8 settembre 1943 si sono avuti momenti di recupero, magari parziale, della nostra compattezza di compagine nazionale. Gli stessi anni Settanta sono stati ambivalenti in tal senso: sia la tragica conferma di una lacerazione da lungo tempo presente nel tessuto connettivo nazionale sia la testimonianza di una complessiva tenuta e di una forza di contenimento, quanto meno inerziale, ancora attiva in quel tessuto così lacerato.
(editoriale di Paradoxa 2/2020) Io non mi sento italiano/Ma per fortuna o purtroppo lo sono Giorgio Gaber Più di altre volte, il titolo scelto dal Curatore è efficace nel restituire intenti, esiti e tensioni interne dell’operazione tentata con questo numero. Nonostante non arrivi ad esser formulato con il carattere esplicito di una domanda o come un’aperta alternativa tra due opzioni, il sospetto amletico, pudicamente trattenuto dalle parentesi, è, a ben guardare, quello che dà il tono all’intero fascicolo: così che la questione dell’essere italiani si viene via via trasformando, nel susseguirsi di contributi e analisi, in una riflessione sui molti sensi in cui si può (si deve?) non esserlo. E poiché anche il ‘non’, come l’essere, si dice in molti modi, gli autori si producono in un ampio ventaglio di registri del ‘negativo’, che va dalla constatazione al suggerimento al divieto; che va dal vigoroso e appassionato rifiuto dell’idea stessa di patria, alla più cauta presa di distanza critica che l’appartenenza europea invita ad esercitare nei confronti di un’identità compresa in termini ingenuamente ed esclusivamente nazionali; dal ripensamento in chiave contemporanea delle impietose analisi del «carattere degli italiani» che si trovano tra le pagine di Leopardi, Gobetti, Gramsci,
Essere (o non essere) italiani a cura di Gianfranco Pasquino La posta in gioco, quando ci si interroga sull’identità nazionale, è la possibilità di un sentire comune (vissuti, storie, valori, tradizioni), dal quale ‘noi’ italiani abbiamo spesso la tentazione di chiamarci fuori. Un sentimento del ‘non’, vale a dire la resistenza ad accettare quel che siamo senza averlo scelto. Forse dipende dal guardare a noi stessi come soggetti tutti ‘moderni’, cioè autonomi, responsabili, liberi di deciderla, la propria identità. Ma occorre fare i conti con la realtà che non tutto è scelto, voluto. Bisogna riconciliarsi con il fatto che, comunque la si metta, l’essere italiano precede il non sentirsi tale. Indice:
(editoriale di Paradoxa 3/2018) Una delle serie televisive più seguite dello scorso anno –Tredici (Thirteen Reasons Why), tratta da un romanzo di Jay Asher – mette in scena in modo molto efficace, talvolta crudo, il disorientamento profondo di un gruppo di adolescenti alle prese con un’ordinaria realtà fatta di scuola, sport, amicizia, amore e sesso, che viene squassata dal suicidio di una di loro, Hannah Baker. Ognuno dei tredici episodi della serie illustra una delle ragioni che hanno condotto la ragazza al gesto disperato: è lei stessa a spiegarle in una lunga testimonianza postuma affidata a delle audiocassette, che raccolgono il suo racconto testamentario attraversato da una violenza via via più esplicita. Ogni audiocassetta è rivolta ad un destinatario specifico, chiamato in causa per essere più o meno profondamente coinvolto nella responsabilità della tragedia. Il contrasto tra l’onnipresenza degli smartphone, che mediano praticamente ogni tipo di interazione tra i protagonisti (non ultimo il cyber-bullismo, che svolge un ruolo significativo nella catena degli eventi), e la scelta di questo medium così antiquato da sembrare ridicolo, così smaccatamente analogico e poco digitale, si carica di spessore metaforico: in fondo, sottrarsi all’iperconnessione, mettersi fuori dal circuito vorticoso di sms e post, significa già,
1. In campo strettamente filosofico il rapporto tra identità e conflitto s’inarca tra due classici su cui molto si è scritto: il frammento 2 di Anassimandro e l’inizio della figura dialettica signoria-schiavitù nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Nel primo testo l’identità naturale è presentata come un prevaricare degli enti gli uni sugli altri, per cui le cose “rendono l’una all’altra il fio dell’ingiustizia, secondo l’ordine del tempo”. Nel secondo testo l’identità delle persone singole si afferma con metterle in gioco l’una contro l’altra in un “combattimento per la vita e per la morte”: finchè il perdente, sentendo nell’incombere della morte l’ “immane potenza del negativo” , non si dà schiavo, trasferendo la propria identità in quella del vincitore. In questo modo ha inizio la vita sociale. Quasi due secoli dopo la Fenomenologia dello spirito possiamo riprendere il discorso dal punto in cui la tradizione l’aveva lasciato, e cioè dall’identità della persona umana. Questa è qualcosa di diverso da una identità puramente naturale, nel senso che va affermata, rivendicata, sviluppata dalla persona stessa, se si vuole che dalla potenza passi all’atto. Tale affermazione avviene nella vita sociale, in rapporto ad altre persone che affermano la propria identità nello stesso modo:
29-30 ottobre 2004, Roma LUMSA – Aula Magna – Borgo Sant’Angelo, 13 La storia ci insegna che gli uomini e le nazioni si comportano più saggiamente una volta che hanno esaurito tutte le alternative (A. Eban) Le regole servono a definire lo spazio del gioco. Che ci siano regole del gioco, di per sé non garantisce che il gioco non sia cruento e neppure caratterizza il gioco come razionale. Tanto che violare le regole può dare dei vantaggi: sul piano strategico Pearl Harbour può essere più razionale che una dichiarazione di guerra per via diplomatica. Quando invece si assumano le parti in contesa come integrate in un tutto al quale sono funzionali nella loro diversità, razionale è far sì che la loro integrità non sia messa in pericolo dalla lotta. Dalla teoria di Montesquieu dell’equilibrio dei poteri, alle costituzioni nazionali e sovranazionali – come la redigenda costituzione europea –, al diritto internazionale con la creazione di specifici organismi di tutela, definire le regole significa definire spazi e ruoli nei processi decisionali capaci di rispondere senza prevaricazioni a bisogni o diritti primari. Crescendo il numero dei giocatori cresce anche il numero degli arbitri, secondo la logica di una buona gestione del
17 Febbraio 2004, Roma Fondazione Nova Spes, Via Piemonte 127 Primo incontro Osservatorio. Chi posso in generale riconoscere come mio nemico? Evidentemente soltanto colui che mi può mettere in questione. […] e chi può mettermi realmente in questione? Solo io stesso. O mio fratello. (C. Schmitt) L’identità non è qualcosa di dato: è sempre il risultato di un’azione, in virtù di cui si traccia una demarcazione, mai definitiva, tra identico e diverso, tra interno ed esterno, tra proprio ed estraneo, tra amico e nemico. Il conflitto, dunque, non è un incidente di percorso: è il motore stesso del processo di costruzione del sé (persona, gruppo, civiltà), che deve faticosamente venire a patti con il debito nei confronti di ciò “contro” cui guadagna la propria identità. Lo scontro-incontro tra “sé” e “altro” è un nodo ineludibile che vale la pena di essere esplorato e che emerge ogni volta che un’identità, che erroneamente si dava per scontata, viene messa in questione. Che cosa è “sé” e che cosa è “altro” quando un organismo è malato? quando un individuo è abitato da tensioni che non governa e che lo conducono oltre la soglia che separa il normale dal patologico? quando una morale condivisa
31 maggio 2005, Roma Sala delle Colonne – Palazzo Marini – Via Poli, 19 Quando il bambino era bambino, era l’epoca di queste domande: perché io sono io e perché non sono te? Perché sono qui e perché non sono là? Quando comincia il tempo e dove finisce lo spazio? P. Handke Le questioni di bioetica chiamano in causa sempre domande fondamentali. Suscitano confronti che, specie se affrontati sulla scorta delle urgenze dell’attualità, costringono posizioni e toni ad inasprirsi e rischiano di assumere il carattere di scontri meramente distruttivi. Nella convinzione che questo non sia l’unico esito possibile di un conflitto di opinioni, la Fondazione Nova Spes si propone di avviare, con questo incontro, una serie di iniziative che offrano a voci autorevoli, di competenze e orientamenti diversi, lo spazio per una riflessione serena e rigorosa. Il tema della fecondazione eterologa, pur dando luogo, rispetto ad altri, a contrapposizioni meno nette, nasconde risvolti estremamente delicati, che investono l’identità personale e collettiva: come si definisce l’identità di colui che viene al mondo, rispetto a quella di coloro che lo mettono al mondo? Come dirimere i casi in cui i rispettivi diritti sembrano entrare in conflitto? In che termini si può parlare
Roma, 16 Luglio 2003, ore 19,00 Fondazione Nova Spes – Via Piemonte 127 Omnis determinatio est negatio: se l’identità non è semplicemente data, ma è il risultato di un’attività identificante da cui viene tracciato un confine, allora il conflitto non si aggiunge ad essa come un evento accidentale, ma le inerisce come sua possibilità essenziale. Ogni confine, infatti, per il fatto stesso di separare interno ed esterno, proprio ed estraneo, li mette in relazione e con ciò apre alla possibilità della minaccia e della difesa, rendendo l’identità precaria per definizione. Di qui i tentativi di decostruzione, che hanno caratterizzato tutto il pensiero del Novecento, sia sul versante analitico sia su quello continentale, e hanno estenuato la cartesiana «certezza di sé» fino al punto da revocare in dubbio la possibilità di riferirsi ad una identità personale. Fino a suscitare l’impressione che il concetto stesso di identità fosse ormai obsoleto. E, tuttavia, l’esplosione di una serie di conflitti etnici, politici, religiosi, che stanno drammaticamente segnando la nostra epoca e che sembrano tutti appellarsi a un’identità da rivendicare a costo della violenza, costringe a riproporre con forza il problema. Nell’atto con cui si pretende di sbarazzarsi frettolosamente dell’identità in favore delle differenze non