Redazione Paradoxa – MISURARE IL VALORE AGGIUNTO CULTURALE

Il 16 febbraio, presso la sede della Fondazione Nova Spes, si è svolto il seminario dal titolo “Misurare il valore aggiunto culturale”. Hanno partecipato: Stefano Bancalari (Fondazione Nova Spes), Luigi Cappugi (Fondazione Nova Spes), Pellegrino Capaldo (Associazione Amici Sturzo), Maurizio Carrara (Unicredit Foundation), Caterina Cittadino (Fondazione Astrid), Melina Decaro (Fondazione Adriano Olivetti), Antonio Fazio (Fondazione Generali), Stefania Mancini (Fondazione Charlemagne, Assifero), Laura Paoletti (Fondazione Nova Spes), Laura Pizei (Fondazione Craxi), Stefano Semplici (Fondazione Nova Spes), Pierluigi Valenza (Fondazione Nova Spes), Stefano Zamagni (Fondazione Nova Spes).

Il PIL è un parametro d’osservazione fondamentale del livello di produttività di un Paese e, per quanto se ne possano evidenziare difetti e manchevolezze, nessuno oggi oserebbe ignorarlo o negare la realtà economica che esso rappresenta. Eppure, ha ricordato Stefano ZAMAGNI nella sua relazione introduttiva, non è sempre stato così: prima degli anni Venti l’indice PIL non esisteva; ed è stato costruito in funzione di necessità specifiche, conseguenti alla situazione venutasi a creare dopo la Prima Guerra Mondiale (in particolare per rimarcare la superiorità dello sviluppo economico dei Paesi capitalisti su quello dell’Unione Sovietica).
L’esempio intende rendere lampante che persino nella più oggettiva delle misurazioni, si nasconde un elemento marcatamente soggettivo, che non inficia affatto la capacità dell’osservatore di leggere e di intervenire efficacemente sulla realtà. Misurare, infatti, non significa prendere passivamente atto di un dato materiale (con un atteggiamento di venerazione che trasforma quest’ultimo in una sorta di idolo oggettivistico), ma privilegiare – con piena consapevolezza – un certo aspetto della realtà piuttosto che un altro, in vista di certi scopi e di certe convinzioni. Perché dunque ostinarsi a ritenere che è impossibile misurare o quantificare ciò che è qualitativo? Questa preoccupazione fondazionale non ha senso: quel che conta è se un certo strumento di misurazione sia più o meno efficace nel mettere in grado l’osservatore di gestire e orientare certe dinamiche nella direzione desiderata.
Forte di questo retroterra metodologico, Zamagni ha sostenuto che la costruzione di un indice del “valore aggiunto culturale” – secondo la proposta lanciata dalla Fondazione Nova Spes – è molto di più che un’operazione semplicemente tecnica: si tratta invece di un significativo passo avanti in direzione di quel vero e proprio cambio paradigma in merito al concetto stesso di “cultura”, per il quale oggi i tempi sono maturi. Gli obiettivi strategici di un’operazione del genere sono quindi fondamentalmente tre:

1.  introdurre (e sostanziare sotto il profilo teorico) la distinzione tra beni culturali (musei, archivi, biblioteche) e attività culturali; mentre sono ovvi i criteri quantitativi in grado di valutare la gestione dei primi (numero di visitatori di un museo, numero di volumi posseduti, etc.), assai più complesso è trovare parametri e variabili adeguati alla valutazione delle seconde.

2. rendere visibile (e valutabile) la cultura come bene d’investimento, piuttosto che come bene di consumo; questo implica prendere finalmente atto delle potenzialità (in termini di sviluppo) di ciò che gli studiosi chiamano “capitale culturale”.
3. promuovere un’operazione di costruzione del consenso che parta innanzitutto da un’aggregazione degli istituti culturali, che sono generatori e serbatoi fondamentali di capitale culturale, per poi arrivare gradualmente al coinvolgimento, attraverso la formulazione di proposte unitarie e innovative, della controparte rappresentata dagli enti erogatori.
L’impostazione illustrata e argomentata da Zamagni ha sollevato un dibattito molto articolato, che – nel consenso di fondo per un percorso teorico giudicato senz’altro meritevole di essere esplorato – ha portato l’attenzione su alcuni aspetti metodologici e di contenuto, che possono rappresentare importanti linee di sviluppo della proposta di partenza:
–   il valore aggiunto culturale: stock o flusso? (Pellegrino CAPALDO, Antonio FAZIO). Sul piano strettamente tecnico della costruzione macroeconomica si è sottolineata l’importanza di separare le questioni di metrica da quelle sostanziali, e di tener conto, nell’elaborazione concreta dell’indice, della distinzione fondamentale tra la misurazione del patrimonio culturale come stock esistente di risorse e la rilevazione delle sue variazioni mediante l’introduzione di una grandezza chiaramente diversa (che può essere chiamata, per l’appunto, “valore aggiunto culturale”). In questo senso diventa ineludibile non soltanto arrivare ad un solido accordo preliminare sulla definizione stessa di “patrimonio culturale”, ma anche prendere in considerazione la possibilità che quest’ultimo subisca anche variazioni di segno negativo (non a caso è molto dibattuto, oggi, il tema della “deculturalizzazione” del Paese). Ciò comporta, per altro, il problema ulteriore di guadagnare una panoramica sulla serie storica dei flussi.
–   quale filantropia? (Maurizio CARRARA, Pellegrino CAPALDO, Stefano ZAMAGNI). Nella rassegna degli interlocutori potenzialmente interessati, o comunque disponibili, alla promozione del progetto VAC, presenti sul territorio italiano, è emersa l’opportunità di una riflessione più ampia sulla funzione sociale della “filantropia”, che in Italia sembra essere meno rilevante che in altri Paesi (basti pensare all’americano The Giving Pledge) e che potrebbe essere opportuno promuovere, mediante l’introduzione di opportuni incentivi fiscali: in questo modo si potrebbe arrivare ad una filantropia diffusa piuttosto che elitaria. A questo proposito si è discussa l’opportunità – proprio per tener conto con la massima accuratezza possibile della specificità italiana – di distinguere tra “filantropia”, tipica dei Paesi protestanti e fondata sul principio di restituzione, e il “mecenatismo”, sorto in Italia nel Trecento, che non considera distinti il momento della produzione e quello in cui si tiene conto delle esigenze della comunità.
–   un piano marketing per salvare gli istituti? (Maurizio CARRARA, Stefania MANCINI, Stefano SEMPLICI). La possibilità di instaurare un dialogo costruttivo con gli enti erogatori implica che nel lavoro di identificazione dei parametri atti a rilevare il valore aggiunto culturale si proceda ad un serio sforzo di assumere un punto di vista esterno a quello degli istituti culturali stessi. E, dall’esterno, la necessità che un certo istituto culturale sopravviva non è affatto scontata (soprattutto in tempi di crisi): è chiaro che di fronte ad eventi culturali magari di grande valore intrinseco, ma del tutto incapaci di richiamare pubblico, appare legittima l’obiezione di chi rileva il fallimento completo del “piano marketing” adottato e l’opportunità di elaborarne uno più efficace. D’altra parte, la necessità che gli istituti culturali attivino risorse intellettuali per entrare in dialogo con esigenze del tessuto sociale che sono sempre nuove (e che senz’altro non coincidono più con quelle per rispondere alle quali gli istituti nacquero) non può significare una rinuncia alla propria identità e al proprio profilo specifico: questo sarebbe del tutto controproducente, in quanto significherebbe disperdere proprio quel capitale reputazionale e di credibilità che costituisce uno dei più importanti elementi di forza di questi soggetti. Per di più è da sottolineare con forza che l’acquiescenza nei confronti di logiche di tipo commerciale non è necessariamente vincente per la società nel suo complesso: in Inghilterra si sta riflettendo sull’opportunità di tagliare i corsi universitari di filosofia; ma non è detto che al risparmio immediato conseguirà un vantaggio di lungo periodo. Così come, su altro versante, sono sotto gli occhi di tutti i danni derivanti dall’imposizione a tutte le discipline di criteri di valutazione della produttività sorti sul terreno della ricerca scientifica in senso stretto.
–   quale volume di risorse è necessario? (Laura PAOLETTI, Stefania MANCINI, Stefano ZAMAGNI). A conclusione del dibattito è emersa anche l’opportunità che la riflessione culturale e sui contenuti non sia disgiunta da azioni di carattere più “politico” volte a mettere in evidenza come la disattenzione del pubblico e del privato nei confronti dell’attività culturale non possa essere giustificata esclusivamente con la scarsità delle risorse disponibili. Il contrasto tra il volume di risorse destinato a scopi di indubbia meritorietà (interventi nel sociale, restauri, etc.) e quello che sarebbe necessario per finanziare progetti di ricerca di valore è stridente – si tratta di ordini di grandezza assolutamente eterogenei – ed è il sintomo di una carenza non tanto nei mezzi disponibili, quanto nel paradigma culturale di riferimento in funzione di cui se ne decide la ripartizione. Quello stesso paradigma per cui si è pronti a finanziare i teatri nei Paesi in via di sviluppo, con l’argomento (inoppugnabile) che in tal modo si contribuisce al progresso economico, senza preoccuparsi in alcun modo del destino di quelli italiani.

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