Ennio Di Nolfo – IL SISTEMA ATLANTICO E LA GLOBALIZZAZIONE

LE RAGIONI GEOPOLITICHE DI UN TRATTATO COMMERCIALE TRA STATI UNITI ED EUROPA (estratto da Paradoxa 2/2016) 1. Per tutti gli esseri umani è chiaro che la Terra è un globo e come tale essa è sempre stata globalizzata. Nel tempo le conseguenze di tale condizione astronomica sono però mutate. Subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica l’esistenza delle due superpotenze venne sostituita dalla sopravvivenza di un solo paese virtualmente capace di dominare la vita globale. Per un certo periodo alcuni politologi, politici e vari uomini della grande finanza internazionale pensarono che il gigante americano potesse da solo dettare le regole della con-vivenza globale, secondo una propria visione, legata agli interessi americani. Non fu necessario molto tempo perché questa illusione tramontasse. Da principio si comprese che altri pericoli potevano derivare dalla volatilità del mercato finanziario. Poi fu sufficiente che un gruppo di terroristi, apparentemente folli ma sostanzialmente ben organizzati e meglio finanziati, riuscisse a colpire i luoghi simbolici, cioè il cuore della finanza americana a New York e il centro del sistema degli armamenti, il Pentagono, sede del dipartimento della Difesa, a Washington, per mostrare anche ai più riluttanti che la solitudine del potere americano era solo un’illusione e che questa solitudine

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Marco Zaganella – OLTRE L’ULTIMA FRONTIERA

Nel XX secolo i destini di Europa e Stati Uniti si sono a più riprese “incrociati”, per riprendere una definizione di Giuseppe Mammarella. A rendere possibile questo legame, che ha configurato l‘Occidente nella sua attuale forma, non è stata solo la presenza di un nemico percepito come “comune”, ma anche la condivisione di affinità ideologiche, culturali e interessi economici. In sostanza, se guardiamo alla storia del Novecento, non possiamo che concordare sul fatto che l’alleanza tra Europa e Stati Uniti fosse “inevitabile”. Ma con i piedi ormai dentro il nuovo secolo e con i processi di globalizzazione che rimescolano le identità culturali e sconvolgono le relazioni economiche, quello che dobbiamo chiederci è: ciò che è valso per ieri, lo sarà anche per domani? Lo stesso Vittorio Emanuele Parsi teme di no, e probabilmente sostiene la tesi dell’«alleanza inevitabile»  per esorcizzare una prospettiva che abbandonerebbe i singoli Stati europei – incapaci di armonizzare i reciproci interessi all’interno di un’Unione che assuma le forme di un serio soggetto politico – alla mercè dei giganti geopolitici del XXI secolo. Esistono tre ordini di considerazione per ritenere che nel prossimo futuro le relazioni transatlantiche «may not be inevitabile» – come afferma Cox. Tutti hanno

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Danilo Breschi – BEN PRIMA DELLA GUERRA FREDDA, BEN DOPO L’11 SETTEMBRE: USA-EUROPA, AMICI-NEMICI

Lo studio delle relazioni internazionali rischia sovente di cadere nel profetismo, sia esso di segno negativo, quando non apocalittico, oppure di segno positivo, se non iperottimistico. In ogni caso, l’analisi geopolitica scivola con troppa facilità nel grande racconto teleologico e totalizzante ogni volta si intenda tracciare scenari che abbraccino ampie sfere del pianeta, se non il globo intero. Sugli Stati Uniti l’esercizio profetico si ripete con cadenza regolare. Raramente un simile esercizio è stato effettuato in chiave ottimistica, e sostanzialmente il periodo in cui questo è fortunosamente avvenuto è da circoscrivere ai primi anni Novanta, ossia all’indomani della conclusione della Guerra Fredda. Si pensi a certe pagine della celebre opera di Francis Fukuyama (La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992), il quale non era comunque privo di preoccupazioni circa il futuro, oppure al quasi coevo Alfredo G.A. Valladão, e alla sua perentoria affermazione secondo cui Il XXI secolo sarà americano (1993). Assai più frequente il ricorso alla profezia apocalittica, o almeno all’annuncio dell’avvento di tempi cupi, di epoche di decadenza. Ed ecco allora che si parla in modo implicito di Ascesa e declino delle grandi potenze (Paul Kennedy, 1988) oppure, più esplicitamente, di Fine dell’era americana (Charles A. Kupchan,

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Massimo Leone – SEGNALI DI PAURA: FEAR IS THE MESSAGE

(estratto da Paradoxa 1/2008) 1. LA COMUNICAZIONE DEL RISCHIO COME OGGETTO DI UNA SEMIOTICA DELLA CULTURA. La comunicazione del rischio, la percezione del pericolo e la diffusione della paura sono fenomeni che, sempre più intrecciati nelle società globalizzate, spesso s’influenzano reciprocamente producendo effetti paradossali. Tali distorsioni possono essere analizzate da diversi punti di vista, ma è inevitabile che la riflessione s’imbatta, presto o tardi, in questioni che richiedono una competenza specifica nell’ambito dello studio dei linguaggi, dei sistemi di significazione e di comunicazione, delle loro interazioni e del modo in cui essi si articolano in relazione ai diversi contesti culturali. È evidente che la comunicazione del rischio sia oggetto di pertinenza di una semiotica della cultura; il modo in cui un individuo, un gruppo o un’istituzione segmenta il campo semantico della probabilità e dell’improbabilità degli eventi, li connota secondo una scala più o meno sfumata di pericolosità, costruisce attorno ad essi una serie di discorsi relativi alle loro cause probabili, alla loro descrizione, ai loro effetti possibili, ma soprattutto il modo in cui tali eventi diventano oggetto di un meta-linguaggio della prevenzione, indirizzato a un certo pubblico con determinati effetti persuasivi rispetto agli atteggiamenti da assumere, le precauzioni da prendere,

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