Marco Zaganella – OLTRE L’ULTIMA FRONTIERA

Nel XX secolo i destini di Europa e Stati Uniti si sono a più riprese “incrociati”, per riprendere una definizione di Giuseppe Mammarella. A rendere possibile questo legame, che ha configurato l‘Occidente nella sua attuale forma, non è stata solo la presenza di un nemico percepito come “comune”, ma anche la condivisione di affinità ideologiche, culturali e interessi economici. In sostanza, se guardiamo alla storia del Novecento, non possiamo che concordare sul fatto che l’alleanza tra Europa e Stati Uniti fosse “inevitabile”.
Ma con i piedi ormai dentro il nuovo secolo e con i processi di globalizzazione che rimescolano le identità culturali e sconvolgono le relazioni economiche, quello che dobbiamo chiederci è: ciò che è valso per ieri, lo sarà anche per domani?
Lo stesso Vittorio Emanuele Parsi teme di no, e probabilmente sostiene la tesi dell’«alleanza inevitabile»  per esorcizzare una prospettiva che abbandonerebbe i singoli Stati europei – incapaci di armonizzare i reciproci interessi all’interno di un’Unione che assuma le forme di un serio soggetto politico – alla mercè dei giganti geopolitici del XXI secolo.
Esistono tre ordini di considerazione per ritenere che nel prossimo futuro le relazioni transatlantiche «may not be inevitabile» – come afferma Cox. Tutti hanno un minimo comun denominatore: a degradare è l’interesse dell’America per il continente europeo.
Il primo è di ordine strategico e ce lo spiega proprio un americano: Robert Kagan. Secondo l’autore di Of Paradise and Power (2003), per tutto il periodo della guerra fredda la prosperità e la sicurezza degli Usa sarebbero state impossibili senza la prosperità e la sicurezza dell’Europa occidentale. Ma con il crollo dell’Urss l’interesse nazionale americano si è “ristretto”, ha cessato di pensarsi anche in funzione delle sorti dell’altra sponda dell’Atlantico e, soprattutto a seguito del 9/11, è tornato a coincidere con il territorio statunitense. Il concetto di Occidente come elemento funzionale della politica americana è così «entrato in sonno», per riprender un’espressione utilizzata dallo stesso Kagan. Un fattore che però si lega indissolubilmente al seguente.
In The clash of Civilizations and the Remarking of World Order (1996), Samuel Huntington sosteneva che «l’unione politica ed economica dell’Occidente dipende soprattutto dalla volontà o meno degli Stati Uniti di riaffermare la propria identità di nazione occidentale» (il corsivo è mio).
“Identità”: questa la parola chiave. Gli Stati Uniti che abbiamo visto nascere e svilupparsi per tutto il XX secolo hanno rappresentato un’emanazione del Vecchio Continente, grazie al saldo predominio dei valori anglo-protestanti incarnati dalla comunità di origine europea. Anche quando vennero posti i primi freni all’immigrazione con le normative del 1921 e 1924, lo si fece sulla base di un sistema di quote basato su criteri di nazionalità e di appartenenza etnica, che assegnava più del 70% di visti di ingresso a 3 paesi (Inghilterra, Irlanda e Germania), mentre solo l’1% veniva offerto all’intera Africa e il 2% all’Asia. Questo sistema rimase in vigore fino agli anni Sessanta, quando l’emergere di movimenti antirazziali ne rese improrogabile l’abolizione. Con l’Immigration and Nationality Act del 1965 fu avviata la revisione del sistema di quote allargando le maglie per i paesi non occidentali. Ma è solo dal 1978 che questo tipo di immigrazione comincia a prevalere, innestando un meccanismo che sta modificando l’identità degli Stati Uniti. Se nei primi vent’anni del Novecento l’85% dei 14,5 milioni di newcomers ammessi negli Usa erano europei, tra il 1980 e il 2000, quasi la stessa percentuale dei 14,9 milioni di immigrati risulta provenire da America Latina, Asia, Carabi e Africa. In funzione anche del loro maggior tasso di natalità, alla data dell’ultimo censimento (2000) in molti stati d’America (Arizona, Hawaii, New Mexico, Texas e California) le minoranze rappresentavano più della metà della popolazione sotto i 18 anni, mentre nella aree suburbane delle grandi città, la percentuale di popolazione di origine non-europea è passata rapidamente dal 19% al 27%. In California – lo stato economicamente più dinamico e popolato (35 milioni di abitanti) degli Usa – il 53,3% della popolazione non ha origini europee. Una percentuale che sale al 65% nel caso di bambini e adolescenti sotto i 18 anni. Se a questo trend demografico –  che dovrebbe risultare ancor più marcato nel censimento del 2010 – si aggiunge l’effetto moltiplicatore esercitato dai matrimoni misti nello sbiadire l’originaria identità occidentale degli “euro-americani”, è comprensibile il motivo che ha spinto Samuel Huntington ad approfondire la riflessione sul tema fino a chiedersi «Who are we?» (2004).
Il nuovo dilemma amletico del celebre autore de «Lo scontro delle civiltà» è questo: «gli Stati Uniti sono, come sostiene qualcuno, una “nazione universale” basata su valori comuni a tutta l’umanità e in via di principio a tutte le genti? Oppure siamo una nazione occidentale la cui identità viene definita dalla nostra origine europea e dalle nostre istituzioni? Siamo multiculturali, biculturali o monoculturali; siamo un mosaico o un melting-pot?» Ma soprattutto: gli Stati Uniti potranno ancora essere considerati un paese occidentale nel XXI secolo?
Non occorre andare troppo in là con lo sguardo per calcolare gli effetti sulle relazioni transatlantiche dell’ascesa delle comunità subnazionali negli States. In vista delle presidenziali 2008, quando il fronte democratico – come sembra probabile – schiererà quale front runner Barack Obama, ci si chiede proprio quale potrebbe essere l’orientamento internazionale degli Usa se, per la prima volta nella storia, dovessero essere guidati da un leader di origine non-europea. Di certo dalle sue labbra non sentiremmo mai pronunciare «Ich bin ein Berliner!» ed è difficile credere che avrebbe per il Vecchio Continente la stessa inclinazione dei suoi predecessori.
Last but not least, il mutamento dell’identità americana si accompagna al rafforzamento dei legami economici tra gli Stati Uniti ed aree del mondo non-europee, Asia (e Cina in particolare) su tutti. Se gli Usa rappresentano il principale mercato mondiale per l’export cinese (circa un terzo del disavanzo commerciale statunitense si registra con la Cina e più del 50% dei prodotti quotidianamente consumati negli States sono made in China), dal canto suo Pechino conserva la maggior riserva mondiale di dollari. Come dire che se il consumatore americano sostiene l’imprenditore cinese, dalla Cina (e in modo significativo anche da Giappone e Corea del Sud) si preoccupano di riorientare tale ricchezza verso gli Usa acquistando buoni del Tesoro (finanziando così l’economia statunitense) e, grazie all’azione dei fondi sovrani, ora anche assets strategici dell’economia a stelle e strisce.
Un’interconnessione economica che sta dando vita a quell’agglomerato definito “Cino-America” o “Americina”, a sua volta alimentato dal cambiamento demografico della società americana. Basti pensare che negli anni Novanta un terzo delle nuove imprese nate nella Silicon Valley (California) sono state fondate da immigrati asiatici, la cui fitta rete di network con i paesi d’origine contribuisce allo sbilanciamento verso il Pacifico dell’economia americana. Dai rapporti economici alle relazioni internazionali, il passo è poi breve.

Come dimostrava alla fine dell’Ottocento Frederick Jackson Turner, la storia dell’America è una corsa oltre la frontiera. Forse, all’alba del XXI secolo, è per lei giunto il momento di abbandonare quella dell’Occidente, per abbracciare definitivamente il mondo. (26/05/2008)

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