Ennio Di Nolfo – IL SISTEMA ATLANTICO E LA GLOBALIZZAZIONE

LE RAGIONI GEOPOLITICHE DI UN TRATTATO COMMERCIALE TRA STATI UNITI ED EUROPA

(estratto da Paradoxa 2/2016)

1.

Per tutti gli esseri umani è chiaro che la Terra è un globo e come tale essa è sempre stata globalizzata. Nel tempo le conseguenze di tale condizione astronomica sono però mutate. Subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica l’esistenza delle due superpotenze venne sostituita dalla sopravvivenza di un solo paese virtualmente capace di dominare la vita globale. Per un certo periodo alcuni politologi, politici e vari uomini della grande finanza internazionale pensarono che il gigante americano potesse da solo dettare le regole della con-vivenza globale, secondo una propria visione, legata agli interessi americani. Non fu necessario molto tempo perché questa illusione tramontasse. Da principio si comprese che altri pericoli potevano derivare dalla volatilità del mercato finanziario. Poi fu sufficiente che un gruppo di terroristi, apparentemente folli ma sostanzialmente ben organizzati e meglio finanziati, riuscisse a colpire i luoghi simbolici, cioè il cuore della finanza americana a New York e il centro del sistema degli armamenti, il Pentagono, sede del dipartimento della Difesa, a Washington, per mostrare anche ai più riluttanti che la solitudine del potere americano era solo un’illusione e che questa solitudine era minata o sfidata da innumerevoli antagonismi. L’aspetto dominante di questa situazione generale riguarda l’evolvere dei modi di produzione nell’economia reale. Si è verificato un chiaro spostamento geopolitico dei fattori di produzione. La disponibilità di terra può apparire in discussione, soprattutto per le aree più densamente popolate, dove peraltro l’adozione di limitazioni demografiche da parte dei governi inciderà, come già mostra il caso cinese, su questo aspetto del problema. D’altra parte la terziarizza-zione del lavoro appare come una conseguenza dell’affermazione di ciò che viene definito come società tecnologica. Il fatto che negli Stati Uniti d’America l’81 per cento della popolazione lavoratrice sia già impegnato, nella seconda decade del XXI secolo, nel settore dei servizi anticipa un’eguale trasformazione altrove. Ciò richiede di riflettere se davvero in avvenire l’evoluzione dei sistemi di lavoro preveda il dominio assoluto delle attività terziarie rispetto a quelle riguardanti l’effettiva produzione di beni, oppure se la produzione di beni possa essere affidata a soggetti diversi dai lavoratori impegnati nell’industria e nell’agricoltura. Posto che immaginare un mondo tutto tecnologico esprime un rifiuto del rapporto diretto tra l’uomo e le cose, l’uomo e gli oggetti, l’uomo e l’alimentazione, l’uomo e le attività artigianali, appare evidente che la tecnologia sarà affiancata da una serie, forse crescente, di attività suddivise sul territorio. Alcune parti del globo ospiteranno prevalentemente attività terziarizzate; altre si dedicheranno alla produzione di beni tangibili. E ciò pone il problema del rapporto che sarà instaurato tra i diversi soggetti variamente localizzati. Sul piano teorico, in passato, i problemi della distribuzione del lavoro, della formazione dei beni, della loro commercializzazione, della finanziarizzazione delle transazioni, della crescita di sistemi richiedenti autodifesa, si traducevano nella nascita di spinte conflittuali tali da portare a misure di controllo del commercio internazionale o dei movimenti finanziari, al controllo del traffico delle materie prime e, in conclusione, a tensioni capaci di sfociare in conflitti militari. Nel XXI secolo il ricorso alle armi per la tutela di interessi particolari o per l’affermazione di progetti imperialistici appare come una forma delle relazioni internazionali sempre più circoscritta a casi marginali. Infatti, le relazioni di interdipendenza (cioè gli effetti della globalizzazione) sconsigliano il ricorso a mezzi conflittuali estremi, specialmente quando tali conflitti possono tradursi in conflagrazioni nucleari. Acquista in tal modo valore il ricorso al concetto e al fatto dell’interdipendenza. Ma questa può manifestarsi con gradazioni diverse.

2.

Se i cittadini dell’Unione Europea godono, nonostante le disuguaglianze, di uno status comparativamente migliore rispetto a quello dei cittadini di altri paesi, ciò potrà rimanere vero, o quanto meno, potrà reggere il confronto con il miglioramento degli altri, solo se la società europea sarà in grado di progredire secondo parametri ade-guati al bisogno. Si tratta di una sorta di scommessa che dall’Europa si estende agli Stati Uniti e che riguarda i due sistemi economici che, nella situazione attuale, cioè durante il secondo decennio del XXI secolo, sono i più strutturalmente integrati. In questo ambito si colloca il tema della tutela di tale integrazione e, più ancora, del suo rafforzamento mediante l’accordo commerciale del quale si discute da tempo, ovvero il Transatlantic Trade and Investiment Partnership. Diviene a questo punto necessario esaminare più analiticamente come, quando e con quali effetti potenziali sia stato proposto il progetto di aprire un negoziato per la stipulazione di un Trattato transatlantico che imposti in modo nuovo gli aspetti pratici della questione e definisca i capitoli di un’intesa, lo scopo della quale sia suggerito dalla volontà di fronteggiare i futuri cambiamenti economici e politici dell’assetto globale senza far perdere agli europei e agli americani la condizione esistenziale attualmente vissuta. L’idea di un accordo transatlantico non è recente. Già nel 1995 nell’ambito dell’Unione Europea il tema era affiorato in termini di ipotesi. Nei primi anni del XXI secolo, con un punto d’arrivo nel 2007, venne creato un Transatlantic Economic Council il cui compito era di accrescere la trasparenza e l’efficienza della cooperazione economica transatlantica e di accelerare la riduzione delle barriere nel commercio e negli in-vestimenti relativi. L’iniziativa acquistò un carattere istituzionale nel giugno 2011, ribadita bilateralmente il 28 novembre, con la creazione di un Gruppo di lavoro sul tema della crescita economica (Eu-Us High Level Working Group on Jobs and Growth-HLWG) composto da esperti di entrambe le parti dell’Atlantico con il compito di studiare il tema. Nel novembre 2012, Hillary Clinton, al termine del suo manda-to di segretario di Stato americano, in un discorso alla Brookings Institution di Washington, affermava che commerci più intensi e investimenti più coordinati sarebbero stati un obiettivo politico di grande rilievo per l’alleanza transatlantica, poiché aprire i mercati e liberalizzare i commerci avrebbe fatto crescere la competitività atlantica durante tutto il secolo. Poche settimane dopo, nel suo di-scorso sullo stato dell’Unione, del gennaio 2013, il rieletto presidente Obama annunciava che il suo governo avrebbe avviato un negoziato con l’Unione Europea per un accordo commerciale battezzato come Transatlantic Trade and Investiment Partnership (TTIP, l’acronimo dopo di allora usato per indicare il negoziato). Il 12 marzo 2013, la Commissione europea approvava un documento di lavoro da sottoporre al Consiglio europeo, nel quale il tema veniva affrontato nei suoi aspetti tecnici. Per cogliere in modo meno schematico i problemi sottesi al negoziato è però necessario prendere in considerazione una serie di questioni che ne condizionano l’andamento. Importa infatti capire se esistano davvero spinte di natura politica a favore o contro il TTIP; se esistano problemi tali da avere riflesso sull’opinione pubblica; sino a che punto la dialettica monetaria influisca sul risultato finale; quali siano i problemi commerciali più rilevanti, cioè i settori della vita economica e dei flussi commerciali potenzialmente interessati all’accordo e quali siano gli ostacoli che il negoziato deve rimuovere. Infine, e sin da ora, prevedere la portata pratica di un eventuale successo. Tra economisti si discute se da ultimo il fatto che il dollaro sia la moneta centrale del mercato mondiale rappresenti un vantaggio, cioè consenta una maggior libertà d’iniziativa alla politica americana e alla sua centralità in generale (come accadde dopo il 1971), oppure se sia un onere. Secondo Barry Eichengreen (Exorbitant Privilege. The Rise and Fall of the Dollar, Oxford University Press, 2011), nel 2010 quasi il 75 per cento delle importazioni da paesi diversi dagli Stati Uniti veniva ancora negoziato in dollari e non vi è motivo per pensare che tale proporzione abbia subito variazioni di rilievo nei pochi anni successivi. Proprio questa osservazione si ripercuote sul senso e la portata della centralità del dollaro nel sistema monetario internazionale. Quali che siano le ripercussioni di tale primato sul mercato interno americano, osservava correttamente Eichengreen, la potestà di stampare la moneta di riserva globale, cioè il cosiddetto signoraggio, occupa solo il ventitreesimo posto tra i fattori che determinano il ruolo degli Stati Uniti nel modo, e ciò significa che il ruolo di una moneta non dipende tanto dalla possibilità di stamparla o emetterla, quanto dalla posizione internazionale della potenza che la produce. L’aspetto monetario del rapporto tra Europa e Stati Uniti è dunque assorbito dall’aspetto politico. Il dollaro continua ad essere la moneta più forte e l’unica effettiva moneta di riserva poiché è la sola valuta che abbia alle spalle un potere politico adeguato a operare con rapidità e forza. Accanto ai problemi monetari il dialogo sul negoziato transatlantico si intreccia con i problemi dell’economia reale e, in particolare, con quelli del commercio internazionale, che del resto sono praticamente l’oggetto principale della possibile nuova convergenza tra le due parti dell’Atlantico. All’inizio del secondo decennio del XXI secolo l’economia europea e quella americana rappresentano ancora il 30 per cento del commercio globale. Le relazioni economiche transatlantiche sono tra le più fluide del mondo e i due mercati sono profondamente integrati sia per ciò che riguarda il commercio di merci e servizi sia per i trasferimenti di capitali. Sebbene ciò che sinora si è visto confermi che le relazioni commerciali tra gli Stati Uniti e l’Europa siano, grazie alla loro fluidità, l’espressione di una consolidata interdipendenza strutturale, esistono tuttavia ostacoli doganali, barriere legislative e regolamenti che frenano tutte le potenzialità di questa integrazione. In generale le tariffe doganali bilaterali sono comparativamente basse, considerata la portata degli scambi. In media, le tariffe americane sono pari al 3,5 per cento del valore e quelle europee al 5,2 per cento. Ma entrambe le parti mantengono tariffe più elevate per settori di particolare interesse.

3.

tener conto di una circostanza, cioè del fatto che l’accordo non è solo il frutto di convenienze commerciali ma anche di visioni politiche comuni. Con la fine della Guerra fredda, i rapporti politici tra Europa e Stati Uniti hanno subito un profondo cambiamento. Anche dopo la svolta degli anni Settanta del XX secolo, quando il ‘paradigma europeo’ cessò di essere l’aspetto centrale delle relazioni transatlantiche, sino alla caduta del Muro di Berlino e al tramonto del Patto di Varsavia, la percezione che l’Europa fosse ancora il principale terreno di scontro fra le superpotenze aveva messo a tacere ogni discussione sulla presenza delle truppe e delle basi americane sul continente. Finita la Guerra fredda sorgeva spontanea una domanda: perché difendere l’Europa da un nemico che aveva cessato di esistere? Op-pure, sul versante europeo, perché subire la presenza e l’egemonia americana quando esse non servivano più alla sicurezza del continente? La divaricazione appariva tanto più evidente quanto più gli Stati Uniti, nei primi anni del dopo-Guerra-fredda operarono davvero come l’unica superpotenza esistente, cioè come i ‘poliziotti del mondo’. Nel 1999 i membri dell’Alleanza atlantica avevano cercato di aggiornarne la funzione varando un nuovo concetto strategico sulla base del quale l’impegno dell’Alleanza non era più solo quello previsto dal trattato del 1949, cioè un impegno limitato al territorio dei paesi membri e all’Atlantico settentrionale, ma veniva esteso a tutto il mondo. La sicurezza dell’Alleanza, si diceva nel comunicato emanato il 25 aprile 1999, alla fine del vertice tenuto a Washington per celebrare il cinquantesimo anniversario della firma del Patto atlantico, avrebbe dovuto tener conto del ‘contesto globale’. La NATO doveva, in altri termini, essere pronta a intervenire in qualsiasi parte del mondo dove direttamente o indirettamente gli interessi dei paesi dell’Alleanza avessero ravvisato un pericolo. Questa estensione globale sottintendeva, alla fine del XX secolo, la perdurante tendenza degli Stati Uniti a governare da soli la politica mondiale. Era una tendenza che meno di due anni dopo, l’11 settembre 2001, Osama Bin Laden avrebbe messo in discussione. L’aspetto militare dell’interdipendenza atlantica non è probabilmente il tema centrale delle relazioni tra Unione Europea e Stati Uniti. La questione che esso simbolicamente rappresenta è tuttavia più vasta e riassume anche i caratteri delle relazioni diplomatiche. Si tratta, in altre parole, di capire se la continua e sotterranea tensione tra Europa e Stati Uniti rappresenti solo l’inevitabile incresparsi di relazioni sempre più amichevoli o viceversa se essa non rappresenti una divergenza tale da provocare una rottura. Benché sia ovvio che solo in avvenire questa alternativa riceverà una risposta definitiva, è tuttavia possibile prendere subito in considerazione il punto preciso sul quale l’alternativa si inserisce, cioè se essa sia una proiezione artificiosa delle tendenze presenti nella politica estera americana oppure se essa abbia un fondamento pratico. Ancora una volta, rispondere a un quesito così impegnativo è un esercizio pieno di rischi al quale tuttavia è impossibile sottrarsi. Da tempo gli analisti di politica internazionale ravvisano nella crescita della Cina e dell’India la fatalità di una svolta verso l’oceano Pacifico del fulcro della politica estera degli Stati Uniti. È inevitabile che la trasformazione economico-politica in atto nei maggiori paesi asiatici richiami una forte attenzione da parte degli Stati Uniti. Ciò che tuttavia occorre capire è se, da parte americana, si intenda ripercorrere il cammino della balance of power, una volta esercitato dalla Gran Bretagna, o porre in essere scelte probabilmente autolesionistiche. Giova ripetere che gli Stati Uniti sono la sola potenza globale in grado di svolgere tale ruolo poiché, a differenza della Cina, dell’India, della Russia e della stessa Unione Europea, occupano una posizione geopolitica in un certo senso insulare, poi-ché sono lontani da ogni potenziale avversario, si affacciano su due oceani che essi sono in grado di controllare e conserveranno tale superiorità sinché avranno una flotta marittima e un arsenale aereo o missilistico superiore rispetto a qualsiasi concorrente. Al di sopra di queste considerazioni vi è però il carattere principale delle relazioni transatlantiche: vale a dire il fatto che l’Europa con-temporanea e gli Stati Uniti siano, insieme, all’origine della cultura politica contemporanea. Nessuno può negare che questo sia un tema circoscritto nello spazio e nel tempo, e che in passato siano esistite al-tre esperienze civilizzatrici delle quali sono rimaste profonde tracce, ma che da un paio di millenni, prima l’Europa e poi l’America siano state al centro della formazione del modo di penare spirituale. In Europa sono stati compiuti i più importanti passi per la conoscenza e il controllo o il governo della natura; in Europa siano state poste le radici per il superamento dei limiti della modernizzazione e per il controllo dei cambiamenti climatici. In Europa sono nate le forme d’arte che ancora dominano, pur in convergenza con altre, la cultura artistica mondiale. Letteratura, poesia, pittura, scultura, architettura, musica, cinematografia sono stati e sono il patrimonio europeo e come patrimonio europeo sono divenute poi anche un aspetto della cultura americana che in Europa ha la sua matrice. In Europa sono nate la filosofia politica che sta alla base del pensiero contemporaneo, in tutte le sue frantumazioni; in Europa è nato, prima che altrove, il pensiero filosofico dal quale è stata posta in primo piano la questione operaia ed è divenuto attuale il tema del progresso condiviso o dell’eguaglianza come conquista sociale possibile. In Europa è stato elaborato il pensiero economico contemporaneo che, dopo Adam Smith e David Ricardo, sino a John M. Keynes, Piero Sraffa, Wassily Leontief e tanti altri, ha poi trasferito il suo motore culturale negli Stati Uniti. Certo, dopo la metà del XIX secolo, questa forza europea è stata in gran parte assorbita dagli Stati Uniti che hanno contribuito ad arricchire il pensiero europeo, a elaborarlo, non sempre in meglio ma con una grande energia tesa verso il cambiamento, verso il rifiuto della stasi sociale, e con una grande spinta verso la trasformazione tecnologica, al punto da cambiare profondamente i caratteri e i modi dell’esistenza umana, nonostante le situazioni di povertà o arretratezza che esistono nei due paesi. Tutto questo unisce l’Europa agli Stati Uniti più di quanto i motivi di divergenza possono allontanarli. E poi si deve richiamare il portato della storia, dalla Prima guerra mondiale in avanti. Si pensi al fatto che l’egemonismo imperiale tedesco e quello hitleriano siano stati sconfitti grazie all’intervento americano. E che dopo la fine della Seconda guerra mondiale la ri-costruzione dell’Europa e la difesa dell’Occidente dalla dittatura staliniana siano stati possibili grazie al contribuito degli Stati Uniti. Un contribuito interessato, è giusto aggiungere, ma ciò non impedisce di capire che esso fu anche un contribuito costruttivo, tale da creare le condizioni per l’esistenza di una comunità politica nel mondo occidentale, al punto che oggi si usa il termine Occidente per definire tutto ciò che è libero, democratico e civile. Il negoziato fra gli Stati Uniti e l’Unione Europea potrebbe sul piano teorico contrastare o, al contrario, collimare con il negoziato Trans-Pacific Partnership. Questo ebbe origine nel 2005, fu adottato dagli Stati Uniti nel 2008, divenne un negoziato potenziale nel 2010, cui nell’agosto 2013 hanno fatto seguito negoziati precisi tra i paesi interessati, che si sono poi conclusi con successo il 6 ottobre 2015. Il numero dei paesi partecipanti è elevato e include l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada, il Cile, il Giappone, la Malaysia, il Messico, il Brunei, il Perù, Singapore, il Vietnam e ovviamente gli Stati Uniti. L’eterogeneità di questo elenco ha rallentato l’attuazione del progetto, sollevato critiche e suscitato diffidenze. Da principio si poteva pensare che tutto fosse stato concepito da parte degli Stati Uniti per contenere la prorompente avanzata del commercio estero della Cina. Ciò che appariva più difficile era immaginare che dalla convergenza di Stati tanto remoti per regime politico e interessi economi-ci emergesse un’effettiva consonanza di visioni tali da portare alla formazione di un’alternativa politico-commerciale rispetto a ciò che accade ancora oggi per l’Atlantico. Da queste considerazioni generali deriva dunque la domanda se concepire la Partnership del Pacifico secondo una valenza diversa da quella che si prospetta per l’Atlantico, anche se potenzialmente complementare ad essa, nonostante che molti negli Stati Uniti abbiano continuato a considerare i due negoziati come due facce della stessa medaglia e, di conseguenza, due risultati da raggiungere insieme, pena l’insuccesso di uno dei due o di entrambi. Qualsiasi risposta non può sottacere il fatto che il tema delle relazioni transatlantiche non si esaurisce nei suoi aspetti quantitativi, ma si estende ad una serie di valutazioni che spiegano meglio i motivi di chi contesta l’importanza dell’accordo e quelli di coloro che, al contrario, lo considerano come una svolta epocale nel modo in cui il sistema internazionale è costituito.

4.

Uno dei temi che suscitano la più agguerrita e motivata avversione all’accordo riguarda tuttavia la diversità dell’approccio rispetto a tematiche genetiche ed ambientali. Questo può essere il terreno di una discussione seria ed approfondita, ma anche di una divaricazione culturale difficile da superare se non dopo un rigoroso confronto circa la fondatezza delle rispettive tesi. Resta inoltre da esaminare l’opposizione al TTIP da parte dei gruppi di pressione i cui interessi verrebbero intaccati dall’elimina-zione di barriere doganali o non tariffarie. I beni di questa categoria commerciale fra Unione Europea e Stati Uniti riguardano, in parti-colare e in ordine decrescente, il settore dei macchinari e delle attrezzature per traspor-ti, quello dei prodotti chimici, quello dei prodotti monetari e dei carburanti, quello dei prodotti agricoli e delle materie prime, quello dei tessili e dell’abbigliamento e, in termini non materiali, quello dei servizi. Per tutti questi settori le esportazioni europee prevalgono quantitativamente su quelle americane. Ma per ciascuno di questi settori esistono gruppi di interesse che cercano di condizionare o impedire l’accordo. Qualunque sia la natura degli ostacoli, è necessario ritornare a riflettere sul passato anche più remoto per cogliere meglio il modo in cui la globalizzazione è percepita e fa sentire le sue conseguenze sulla vita politica e sull’economia globale. Questo, del resto, è il compito dello storico. Le forze politiche che hanno dominato il mondo moderno ebbero bisogno di un certo tempo per capire che, dopo la scoperta dell’America e con la formazione dei sistemi imperiali, ciò che accadeva in Europa aveva ripercussioni ovunque e doveva tener conto di ciò che accadeva altrove. Il potere globale dell’Europa entrò in una fase di crisi autodistruttiva, provocata dalle rivalità imperialistiche. La Prima guerra mondiale segnò il momento iniziale di questa crisi, seguita da un intermezzo ventennale e completata dalla Seconda guerra mondiale: i due terribili momenti in cui l’Europa tentò il suicidio. Venne salvata poiché essa si trasformò da forza (o insieme di forze) capace di governare il sistema globale in terreno di scontro di due visioni del mondo. Il successo dell’operazione statunitense nell’Europa post-bellica derivò dalla capacità dell’amministrazione americana di modulare le proprie richieste e la propria avanzata senza ferire la sensibilità degli europei, anzi indicando l’ipotesi dell’integrazione europea come il metodo più efficace per tenere insieme i paesi non forzosamente dominati dallo stalinismo e per conquistare il loro contributo alla ricostruzione di un sistema economico strutturalmente integrato e tale da favorire sia la crescita della potenza globale degli Stati Uniti, sia la ricostruzione economica dell’Europa, sia infine il mantenimento di molte situazioni privilegiate rispetto ai sistemi coloniali esistenti. Fu solo il trionfo della decolonizzazione che mise in discussione un sistema così efficiente. Infatti, non subito ma entro un paio di decenni dopo gli anni Cinquanta del XX secolo, la combinazione tra la spinta antieuropea del mondo coloniale e il progresso delle forme tecniche delle relazioni internazionali fecero affiorare non più come realtà di fatto ma anche come realtà percepita il tema della globalizzazione. Negli ultimi anni del XX secolo si incominciò a comprendere che tutta la vita internazionale aveva assunto ritmi nuovi, conosceva temi nuovi, proponeva nuove sfide. La diffusione dell’industria moderna ha collocato la globalizza-zione al centro di tensioni politiche e geo-politiche. Il modo in cui il sistema internazionale affronterà queste sfide sarà una delle chiavi che determineranno la natura del XXI secolo. Proprio questo è l’a-spetto critico di tutta la costruzione logica e storica sin qui tentata. Se vissute all’interno di un sistema economico e finanziario sorretto da un’alleanza politica, certe tensioni, come per l’appunto quelle vissute all’interno del sistema occidentale, possono essere governate e dirette verso soluzioni di compromesso capaci di contenerle all’in-terno degli schemi esistenti. Quando esse riguardano un insieme di soggetti profondamente diversi e dalla storia remota, la questione diviene più complessa e genera problemi e proposte di nuova natura. Non si tratta ora di stilare graduatorie o redigere nuove e frettolose previsioni sull’esito dei negoziati transatlantici dopo la conclusione dell’amministrazione Obama o in considerazione delle rigidità emerse recentemente in Germania. Né si tratta di tenere presenti i dati statistici che pure hanno la loro eloquenza. Infatti i dati statistici non dicono tutto della relazioni tra i popoli. Forse la cultura euro-atlantica si avvia verso un lento declino. Forse il fulcro delle relazioni internazionali tende a spostarsi dall’Atlantico all’Asia centrale o al Pacifico. Ciò che importa è tutelare i valori che la cultura euro-atlantica lascerà come patrimonio per chi in futuro dovrà occuparsi del governo globale.

 

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