Roberta Ricucci – INTEGRAZIONE DELLE SECONDE GENERAZIONI E RELIGIOSITÀ

(estratto da Paradoxa 3/2016)

Nell’estate in cui per parlare di religione e immigrazione si discute di burkini e della compatibilità dell’abbigliamento delle donne musulmane con le società europee, ci si dimentica che nella stessa Europa era possibile descrivere le contadine di fine Ottocento (ma in molte zone anche di pochi decenni fa) come donne «con il fazzoletto in testa» e abiti lunghi e neri. Lo scenario era quello di un ruolo femminile legato soprattutto alla fertilità e al lavoro nei campi, connubio che relegava le donne agli importanti compiti della riproduzione e del sostentamento dell’economia domestica. Spesso la memoria vacilla, come già scritto nel volume Cittadini senza cittadinanza, da cui questo testo prende alcuni spunti approfondendoli. Le polemiche si accendono e infervorano seguendo l’aggrovigliarsi di argomenti e messaggi retorici, che avvelenano però la realtà e minano processi di coesione sociale costruiti faticosamente. Infatti, sembrano lontane le discussioni sul rapporto fra religione e seconde generazioni che hanno attirato l’attenzione di studiosi sin dagli attentati alle metropolitane di Londra e Madrid, per giungere sino ai più recenti tragici avvenimenti in Francia e Belgio. Eppure gli elementi della questione sembrano gli stessi: giovani, immigrazione, integrazione, religione.
Gli eventi della storia e gli elementi di estraneità che conosce l’islam nel contesto europeo mettono sotto i riflettori la relazione fra i figli dell’immigrazione e la religione di Maometto. Ma le seconde generazioni non sono solo quelle legate all’islam. In particolare nello scenario italiano, dove la presenza di immigrati musulmani è superata da quella cristiana: quindi, quando ci interroghiamo sul rapporto tra seconde generazioni e religione lo sguardo si amplia, comprendendo ortodossi, cattolici, ma anche pentecostali e numerose altre appartenenze.
Il policentrismo migratorio caratteristico del contesto italiano si ritrova anche nel panorama religioso. Le attività per i giovani organizzate dai Sikh nel tempio di Novellara, o l’Estate Ragazzi promossa dalle sale di preghiera islamiche, del tutto paragonabile con quella organizzate dalle cappellanie filippine o sud-americane, sono esempi che introducono al tema di come – sempre di più – il dibattito fra religione e integrazione sia vivo nei singoli territori, nell’arena che coinvolge cittadini, amministrazioni e collettività di immigrati. La partita dell’inclusione si gioca sul campo delle politiche di integrazione a livello locale anche per quanto riguarda la relazione con la fede: per adulti e giovani, di prima e seconda generazione. Le città e i quartieri ovviamente si differenziano per composizione della popolazione immigrata, caratteristiche socio-demografiche, iniziative e opportunità offerte, ma anche per le modalità di relazione con la cittadinanza in generale e i processi di coesione sociale che ne derivano. Fra queste strategie vi sono anche quelle che attengono alla gestione della diversità religiosa, che spesso finisce per ridursi alle relazioni fra le città e la presenza musulmana.
La religiosità è viva fra gli immigrati, come dimostra la presenza di chiese e moschee. D’altra parte, i migranti si sentono solitamente a loro agio in luoghi di culto. In essi trovano sacerdoti che parlano la loro lingua madre, condividono (o comprendono) lo stesso retroterra culturale o etnico, conoscono le difficoltà che nascono dall’incontro/
scontro fra modo di vivere cui si è abituati e richieste della società di accoglienza. Se tuttavia ciò è vero per la prima generazione di immigrati, cosa succede alla seconda? Sta seguendo il processo di secolarizzazione che sembra diffondersi fra i giovani in Europa?
Continua a essere religiosa nella stessa maniera dei loro genitori, oppure segue la via ‘laica’ europea?

LE SECONDE GENERAZIONI, INDICATORI DI INTEGRAZIONE

Secondo le più recenti proiezioni dell’Istat, nel 2065 il 23% della popolazione residente avrà una cittadinanza diversa da quella italiana. Tale incidenza sale al 30% quando si considera il solo sottogruppo di età 0-18 anni. La presenza immigrata non è più dunque una novità né una temporanea eccezione. Non saranno sufficienti alcuni anni di lavoro (e di guadagno in Italia) a determinare un rientro in patria. Il quale magari resterà un obiettivo, che diverrà con il tempo sempre più lontano e sbiadito: come anche le esperienze delle migrazioni italiane raccontano, l’idea del ritorno si trasforma spesso in un mito. Anche quando il gioco dell’integrazione si fa più duro, come negli ultimi anni a seguito dell’impatto della crisi economica e della ripresa di importanti ondate xenofobe. Eppure, nonostante gli sbarchi e l’emergenza dell’accoglienza dei profughi abbia relegato in un cono d’ombra la discussione sul tema chiave relativo alle seconde generazioni, ovvero quello della modifica della cittadinanza, l’attenzione a questo particolare gruppo dei figli dell’immigrazione continua a essere richiamata da diversi punti forti. Le seconde generazioni, infatti, rappresentano la cartina di tornasole dell’efficacia del processo
di integrazione, poiché impegnarsi per esse significa – di fatto – lavorare per tutta la cittadinanza. Dalle politiche scolastiche a quelle giovanili, dalle relazioni inter-generazionali a quelle fra giovani leve e figure educative: in tutti questi casi si agisce per costruire e/o rafforzare processi di convivenza civile, all’interno di una cittadinanza che diventa più consapevole delle trasformazioni indotte – e imprescindibili – dell’immigrazione.
In secondo luogo, attraverso il percorso di crescita dei giovani di origine straniera si coglie la capacità di un territorio di agire sul palcoscenico delle relazioni fra nativi, migranti e figlie e figli di questi ultimi.
Infine, per il già citato richiamo alla dimensione locale delle analisi e degli interventi, poiché è proprio a livello di quartiere o piccolo comune che operatori e amministratori si confrontano (e talora si scontrano) con le difficili dinamiche della convivenza e della coesione sociale.
Il vero banco di prova dei processi di inserimento di questi anni avverrà nei prossimi anni, quando gli studenti di oggi si confronteranno con il mondo del lavoro, la costruzione di relazioni affettive durature, le istanze di partecipazione nelle aree in cui vivono. La sfida allora diviene quella di non considerare progetti e percorsi sin qui realizzati come un punto d’arrivo, ma come una tappa all’interno di un processo (più o meno lungo) di inclusione, che si amplia agli aspetti più significativi delle biografie dei figli dell’immigrazione, tra cui l’appartenenza religiosa. Tale processo ha tra i suoi punti
più qualificanti il coinvolgimento dei soggetti agenti all’interno di un territorio, la valorizzazione dei giovani e delle loro energie in un percorso di costruzione di cittadinanza attiva e l’intreccio fra competenze diverse. In altre parole, l’inclusione si concretizza nelle caratteristiche dei cittadini di domani e nel come la cittadinanza
in generale saprà reagire e misurarsi con una realtà che spesso ha caratteristiche diverse da quelle in cui è cresciuta.
Se da un lato i percorsi di integrazione e di coesione sociale sono condizionati dalle risorse finanziarie a disposizione, d’altro canto, per rendere davvero efficace ogni politica di integrazione, un ruolo significativo è svolto dalle persone. In particolar modo da quelle risorse umane che hanno compiti di programmazione, ma anche di formazione, accompagnamento, produzione e diffusione di una cultura della convivenza basata sulle eguali opportunità di chi nasce e vive all’interno di una stessa comunità. A loro va quindi dedicata molta attenzione. Sono coloro che per primi devono comprendere in che modo sia cambiata la società italiana, come gli adulti arrivati venti o trent’anni fa con l’idea di un progetto migratorio temporaneo siano oggi genitori (talvolta nonni) di giovani e bambini nati e/o cresciuti in Italia, di quei volti che popolano la nostra quotidianità. Allievi delle scuole materne o già adolescenti alle scuole superiori, ragazzi che frequentano gli oratori e le sale di preghiera, apprendisti in mestieri artigiani che la società della conoscenza non ha spazzato via (ma ha reso sempre meno appetibili ai coetanei italiani). Altri sono già parte del mondo del lavoro o studenti universitari, altri ancora reali figure ponte in attività commerciali transnazionali. Non vanno dimenticati poi coloro che hanno percorsi più difficili: come in ogni popolazione giovanile, anche fra i figli dell’immigrazione ci sono quelli che si perdono, che si fanno abbagliare da facili guadagni o che trovano nella rottura dei valori tradizionali, delle regole familiari e delle norme sociali il modo per reagire a stereotipi e etichettature assegnate, impietosamente, sulla base del colore della pelle, del passaporto, di una presunta religione di appartenenza. Senza pensare che comportamenti, atteggiamenti e anche appartenenze religiose si possano modificare nell’esperienza migratoria e da una generazione all’altra. Nella biografia di ognuno di noi vi sono momenti di discussione (quando non di vero e proprio conflitto) con i genitori: da sempre la generazione più giovane contesta modelli e regole di quella più adulta. Tuttavia sembra che questo non sia ammesso per i figli degli immigrati. Spesso infatti vengono considerati replicanti dei genitori. Per cui a loro si chiede di descrivere nel dettaglio paesi dove magari non sono mai stati, se non per le vacanze; oppure di parlare di rituali e tradizioni di culture che loro vorrebbero abbandonare; o ancora di usare una lingua, di cui conoscono solo qualche parola e non la versione scritta. Nulla di nuovo: chi è figlio della migrazione interna o ha esperienze di migrazioni in famiglia facilmente potrà richiamare alla memoria quadri simili. All’interno dei vari cicli migratori, alcuni elementi si ripetono, come se il tempo cancellasse nella memoria di chi è stato migrante le fatiche e i momenti di relazione con i vecchi residenti più difficili, a tratti più umilianti. Così oggi le ragazze filippine o ucraine possono sentirsi apostrofare come future badanti: forse non tutti sanno che molte delle donne straniere che svolgono questa professione sono laureate, qualificate, con carriere precedenti di alto profilo, ma per forza (a causa delle difficoltà in cui versano i paesi di origine) o per amore (per garantire opportunità di qualità ai figli) hanno lasciato il rassicurante luogo d’origine per intraprendere una migrazione. Allo stesso modo accade a ragazzi maghrebini di essere indicati come musulmani ortodossi, credenti e praticanti: anche fra i giovani musulmani, come fra i giovani italiani, vi sono coloro che frequentano e pregano assiduamente, e coloro che invece hanno un rapporto con la religione solo durante le festività principali.

NUOVI ATTORI SULLA SCENA:
LA RELIGIOSITÀ DI GENITORI E FIGLI A CONFRONTO

Nella vita degli immigrati, la religione è ben presente anche quando il processo di inserimento e l’avanzare delle seconde generazioni gettano le basi per divenire cittadini italiani. Il rapporto con essa si trasforma, ma non viene meno, come testimoniano i dati di frequenza di chiese e moschee/sale di preghiera. Certo, queste ultime non rivestono solo un ruolo religioso, ma sono anche luoghi importanti nell’offerta di servizi di accoglienza e di una sorta di sistema di supporto sociale, sia per i primi arrivati sia per chi emigra irregolarmente. Infatti, i luoghi di preghiera degli immigrati divengono ambienti
entro cui rifugiarsi nella condivisione dello stesso background.
Il passo successivo è quello dell’avanzare richieste di riconoscimento alle autorità locali e poi a quelle nazionali. La prima generazione ha organizzato intorno a questi temi la relazione con lo stato italiano, giocando attraverso una dialettica che dall’esperienza quotidiana si sposta al livello della rappresentazione e del posizionamento della religione nel contesto pubblico. Molti segnali indicano tuttavia come la seconda generazione sembri abdicare a questo impegno, puntando maggiormente a un riconoscimento locale su altri temi; questo però non deve essere confuso con un allontanamento dagli esiti della socializzazione religiosa avuta in famiglia.
Spesso chi si interessa di religione in emigrazione vorrebbe tracciare una linea di confine netta fra la religiosità della prima generazione e quella della seconda, più secolarizzata. È utile invece ricordare come risultati di indagini empiriche recenti suggeriscano che la religione etnica giochi un ruolo significativo nelle vite dei giovani delle seconde generazioni, contrariamente a quanto l’esperienza degli immigrati europei dei secoli scorsi ha evidenziato. Anche alla luce dei risultati di queste ricerche si è diffuso lo spettro di una seconda generazione integralista dal punto di vista religioso, amplificato nell’opinione pubblica dai numerosi episodi di terrorismo che hanno visto coinvolti giovani di seconda o terza generazione. È un fantasma che viene evocato pensando ai figli dell’islam in emigrazione e immaginando tale appartenenza religiosa come un monolite compatto, omogeneo, senza fratture e dinamiche di trasformazione e di cambiamento al suo interno. La realtà è tuttavia assai più complessa e frammentata, e coinvolge anche giovani di altre appartenenze religiose.
Per quanto riguarda l’islam l’aumento del numero degli studenti che a scuola si dichiarano musulmani, delle ragazze che indossano il velo e di un protagonismo associativo legato alla religione può diventare un terreno favorevole all’emersione di identità religiose latenti, il cui timore dello stigma o della discriminazione impediva di emergere. A tal fine, sembrano invece giocare un ruolo di minor peso le moschee (o meglio, sale di preghiera) presenti in città, le quali continuano a essere un punto di riferimento per i vecchi pionieri e per i migranti dell’ultima ora, svolgendo quelle funzioni tipiche delle organizzazioni religiose in emigrazione, ovvero di riferimento non solo religioso, ma anche (e soprattutto) identitario.
Le posizioni di fronte alla religione appaiono molteplici. Per alcuni essa diventa solo il riferimento all’ambiente familiare, a un humus culturale in cui si è cresciuti. In questi casi l’essere musulmano, ortodosso, cattolico e così via è un (piccolo) tassello del mosaico identitario. In altri, invece, è un elemento chiave della propria identità, talora anche in contrasto con la generazione dei genitori che invece ha maturato una religiosità più privata, poco visibile. A colpire sono le scelte di chi decide di rendere esplicita un’appartenenza, ancora – dopo oltre trent’anni di migrazione – foriera di discriminazioni, come puntualmente rilevato negli ultimi anni dal rapporto UNAR (ufficio in capo alla Presidenza del Consiglio) sulla discriminazione razziale. Scelte impegnative in un panorama della religiosità giovanile dove si ragiona più in termini di debolezza della fede e di religione ‘fai da te’ che non di riconoscimento nella religiosità mainstream. Il rapporto con la religione dei giovani non deve però essere inteso come un’adesione acritica. La gran parte dei giovani (molti dei quali hanno comunque un legame, in maniera più o meno intensa, con associazioni o realtà di stampo religioso) è consapevole della distanza che separa la loro generazione da quella dei genitori nel vivere e interpretare la fede, così come nella relazione con l’Italia e i paesi d’origine. Un confronto intergenerazionale mette in luce una certa capacità di impegnarsi dei giovani, in particolare di quelli con livelli di istruzione più elevati, nel cogliere le sfide che hanno di fronte come figli dell’immigrazione.

IDENTITÀ RELIGIOSE‘NON’CRISTALLIZZATE

Lo strabismo con cui talora il dibattito pubblico affronta il tema della religione è evidente nel caso dell’immigrazione e dei suoi protagonisti, siano essi di prima o di seconda generazione. Negli ultimi anni si è passati da un dibattito sulla società secolarizzata alla tesi che il problema dell’Europa non sia tanto l’assenza di religione, ma la presenza di ‘troppo religioso’: un’offerta assai ampia, in cui i giovani – come da un menù à la carte – scelgono in cosa credere, quando (e per quanto), in che modo. Dal sincretismo, alle conversioni, al rinnovato turismo religioso, seguendo un comportamento selettivo che si traduce in una crescente privatizzazione e autonomizzazione del religioso. Di tutto questo si discute quando si pensa ai giovani italiani. E degli altri cosa sappiamo? Si tratta di una componente giovanile che in altri campi (dalla demografia
all’economia) viene ritenuta necessaria, e oggetto di attenzione. Ciò nonostante, come già accennato, spesso il rischio è quello di trattare i figli come delle repliche dei genitori. Nel lavoro, dicono alcuni, saranno dei sostituti delle madri e dei padri nella cura degli anziani o nelle varie attività dei servizi a basso valore aggiunto del terziario. Nelle relazioni affettive e nei comportamenti matrimoniali, sceglieranno partner e coniugi all’interno delle collettività (o dei paesi di origine) di riferimento. Nella religione, seguiranno le orme dei padri. Certo, in quest’ultimo caso esiste un forte effetto della socializzazione religiosa famigliare, ma viene da chiedersi quali sono le posizioni dei genitori dal punto di vista dell’appartenenza.
L’emigrazione, infatti, è un’esperienza che mette alla prova ogni suo protagonista. L’incontro con un nuovo sistema socio-culturale, nonché la lontananza dall’abituale ambiente (di controllo) sociale può riservare delle sorprese, così come dei veri e propri cambiamenti radicali.
Numerose ricerche hanno via via messo in luce come le posizioni di fronte alla religione si possano collocare lungo una direttrice che va dalla vicinanza culturale all’impegno attivo nell’associazionismo comunitario, passando per posizioni intermedie come quelle della pratica individuale e/o familiare e della frequenza assidua degli spazi di preghiera. Le posizioni di fronte al sacro appaiono quindi molteplici e non riconducibili a semplificazioni che tendono a presentare la religione fra gli immigrati (da quella cattolica a quella musulmana, da quella sikh a quella pentecostale) come portata avanti da fedeli attivi. Persone per nulla scalfite nell’appartenenza religiosa dagli effetti della migrazione, dall’essere in un contesto in cui la struttura architettonica per la preghiera spesso manca (o è ridotta ad ambienti non sempre edificanti), dai tempi della vita lavorativa, scolastica e sociale che rendono difficile la pratica, non solo per i musulmani ma anche per altre religioni.
Se dunque già fra le prime generazioni, il rapporto con la fede si modifica in emigrazione, cosa succede quando volgiamo lo sguardo ai loro figli? Per loro la socializzazione religiosa assume caratteristiche diverse da quanto è stato recentemente rilevato nelle famiglie italiane, le quali si rilevano meno impegnate di un tempo nel trasmettere ai figli un’educazione alla fede? In sintesi, i figli dell’immigrazione condividono le posizioni delle loro famiglie o l’atteggiamento dei loro coetanei, che oscilla fra l’indifferenza e un’autonoma modalità del credere, spesso lontana dalla partecipazione istituzionale?
Per alcuni di loro, come dimostrano recenti studi incentrati sul rapporto fra seconde generazioni e religione, la fede continua a rappresentare un elemento chiave della propria identità, talora anche in contrasto con la generazione dei genitori, che invece ha maturato una religiosità più privata, poco visibile. Questo è soprattutto vero nel caso delle ragazze musulmane, dove si registra – in controtendenza rispetto alla generazione delle madri – una determinazione nell’indossare il velo, simbolo per lo più di un’identità riconquistata, accettata che di un attivismo religioso vero e proprio. Ovviamente per alcune di loro il tema della religione si intreccia fortemente con quello della propria identità, ma altrettanto forte e chiaro è il messaggio che si tratti di qualcosa di diverso da quello che le loro madri
e le loro nonne hanno sperimentato nei paesi di origine. Loro sono ‘altro’, le avanguardie di un islam europeo, compatibile con il luogo in cui vivono.
Tale esperienza non è solo propria dei figli dell’islam. Anche i giovani cattolici filippini e sudamericani o quelli sikh di origine indiana si sentono sotto osservazione. Su due fronti. Da un lato quello delle famiglie (e ancor di più) delle comunità di origine e dall’altro quello della società italiana, dei coetanei, delle amministrazioni locali che puntano su di loro per costruire dibattiti e occasioni di confronto religioso al plurale per depotenziare almeno il versante del conflitto religioso in un tempo storico in cui il tema dell’accoglienza dei profughi rischia di far saltare faticosi processi di coesione e di equilibri sociali costruiti nel tempo.
Per quanto riguarda il primo fronte, forse quello più complicato e difficile da gestire, la fedeltà dei figli al modo di vivere la religiosità dei genitori significa attaccamento ai valori, partecipazione di una cultura che si esprime – ad esempio – nelle processioni (da quelle per La Señora de Los Milagros dei cattolici peruviani a quelle per la festa di Vaisakhi dei sikh) o nel coinvolgimento attivo all’interno delle comunità religiose, che come si è visto sono anche – per tutte le fedi – importanti luoghi di incontro, scambio di informazioni, conforto reciproco e sostegno. Ad esempio attraverso attività a favore delle famiglie che si sono trovate più in difficoltà a seguito della crisi o per affrontare le costose spese del rimpatrio della salma di un connazionale. Per le seconde generazioni, la partecipazione alle attività delle comunità religiose etniche significa talora andare a scuola di tagalog o di arabo, organizzare attività durante l’estate per i più piccoli o ancora essere coinvolti nella preparazione dei riti.
Come ci ha confidato un giovane musulmano, durante un’intervista: «A noi tocca dimostrare di essere veri marocchini, veri egiziani, veri musulmani, ma allo stesso tempo dobbiamo dimostrare di essere degni di vivere in Italia. Anche quando abbiamo la cittadinanza italiana, ogni giorno è un po’ come essere sotto esame. È qualcosa che
senti. Sarà perché qui non è come ad Amsterdam o a Londra, dove girare con il velo, entrare in una libreria per cercare libri sul Corano, avere ristoranti di livello attenti a tutte le diete religiose non è qualcosa di strano. I nostri genitori si sono accontentati. Potevano fare altro? Noi dobbiamo lavorare per non essere appiattiti sulla loro immagine.
In tutto: in genere si dice che non vogliamo fare i lavori dei nostri genitori. Non è solo questo. Noi non vogliamo essere etichettati come lo sono stati loro. Anche sulla religione. Noi siamo diversi. Il modo di vivere la religione non rimane costante attraverso il tempo. Anche per gli italiani è lo stesso. Dove sono le processioni? Dove sono le donne velate in chiesa? E i giovani vanno a messa come i loro nonni? Come i loro genitori? Osservano la Quaresima? Perché noi figli di musulmani non abbiamo il diritto di essere diversi dai nostri genitori? Perché ci si stupisce? Non è quello che l’Italia sperava? Ci chiamano nuovi italiani, seconde generazioni, forse per cancellare il nostro passato?».
Così l’universo giovanile delle seconde generazioni vede una costellazione di giovani impegnati (anche se non del tutto sempre convinti) nelle chiese, nelle sale di preghiera, nei templi etnici. Il loro ruolo sembra essere quello di cuscinetto fra le comunità e l’intorno sociale, fra le comunità dove le prime generazioni invecchiano e hanno bisogno della sicurezza di poter lasciare il testimone e la cura dei valori in cui credono a giovani ‘non corrotti’ dalla cultura italiana, percepita come secolarizzata, dove i valori di condivisione, armonia, sostegno e sguardo benevolo verso i più poveri sembrano sommersi dall’egoismo e dalla paura.
Accanto a questi giovani, cui tocca il difficile compito di saper giocare con le appartenenze dentro e fuori i molti luoghi in cui si vive, vi sono coloro che frequentano associazioni interculturali, sono attivi nella promozione della conoscenza della realtà multiculturale del paese e sono in genere consapevoli della distanza che separa la loro generazione da quella dei genitori nel vivere e interpretare la fede, così come nella relazione con l’Italia e i paesi d’origine.
Il confronto intergenerazionale sugli aspetti del religioso mette in luce una profonda capacità riflessiva dei giovani, in particolare di quelli con livelli di istruzione più elevata, nel cogliere le sfide che hanno di fronte come figli dell’immigrazione. Come pure nel percepire le differenze rispetto all’educazione e alla socializzazione dei genitori, avvenuta in ambienti permeati dalla religione e in cui l’appartenenza culturale, religiosa e nazionale si fondevano per diventare allo stesso tempo unicum indistinto all’interno della comunità locale tratto distintivo rispetto all’interazione con l’esterno.
Vi sono infine coloro per cui la religione è parte dell’educazione ricevuta dalla famiglia e poco più, alla stessa stregua di molti coetanei italiani che si confrontano con il cattolicesimo. Il rapporto con la religione ha una qualche intensità sino all’adolescenza e si assiste poi a una presa di distanza, nella costruzione di un articolato mosaico identitario che molti sperano di suggellare con la cittadinanza italiana.

PROVE TECNICHE DI CONVIVENZA RELIGIOSA

Da un lato ci sono i giovani, i figli, competenti in italiano, presenti e attivi nella vita cittadina, in rete con altri coetanei sia nella diaspora europea sia nei paesi di origine, esponenti di una religiosità integrata con la realtà italiana. Dall’altro gli adulti, i genitori, ancorati all’immagine dell’immigrato che fuori dalla patria si rifugia in chiesa, nella moschea, trova conforto e sostegno nella comunità etnico-nazionale, non sente il bisogno di diventare un interlocutore significativo e un partner rilevante delle politiche interculturali cittadine. Fra questi due poli, ovviamente troviamo le rappresentanze associative che a livello locale lavorano per ottenere luoghi di culto propri (ad esempio, parrocchie a uso esclusivo o sale di preghiera che smettano di essere garage o magazzini). Sono le richieste dell’islam a essere quelle più
rumorose, ma non certo le uniche.

Nelle comunità cristiane è forte il dibattito se continuare a mantenere cappellanie etniche (e quindi luoghi e orari delle celebrazioni in cui si mantengono ritualità e lingue non italiane) o cercare di trovare una sintesi con quanto accade nei riti italiani. È questo, ad esempio, il caso dei metodisti, dove l’arrivo di giovani africani ha portato l’anziana comunità a interrogarsi sulla difficile scelta fra l’assegnare loro una funzione ad hoc (e quindi separata) o se inglobarli nelle funzioni principali, discutendo la modalità di partecipazione religiosa, fra canti, suoni e tradizionali silenzi. In questi scenari il ruolo delle seconde generazioni appare una chiave di volta. Essi sono «ricercati e benvoluti» perché rappresentano la garanzia dei numeri e dell’integrazione nella società, per la loro capacità di interagire con il contesto circostante. D’altra parte, a loro è richiesta una partecipazione incondizionata, senza se e senza ma. In altre parole, sono necessari, purché non vogliano mettere in discussione la leadership delle prime generazioni. Tale processo è molto visibile nel caso dei musulmani, dove la riflessione su questo punto è più avanzata. Il desiderio di alcuni, di porsi come leader non è tuttavia privo di ostacoli: è molto difficile per i giovani essere riconosciuti come rappresentanti della comunità, minacciando di oscurare figure che hanno, da tempo, ruoli di responsabilità al suo interno.

Laddove i processi di inserimento delle famiglie straniere sono più avanzati e strutturali, si colgono segnali di una rottura nei modi e nei contenuti fra l’associazionismo di prima e di seconda generazione. Le istanze sono più generali, legate a riconoscimento come attori e parte significativa del contesto socio-culturale cittadino. Le preoccupazioni sono legate ad attività di sensibilizzazione e aggiornamento della cittadinanza sui cambiamenti generazionali in corso nella presenza musulmana: si organizzano eventi, giornate aperte alle moschee, si producono volantini, si partecipa a incontri nelle scuole. Il terreno su cui ci si muove, per tutti (e non solo per i musulmani), sembra essere più quello della ‘religiosità simbolica’, in cui le identità religiose di seconda generazione sono solo vagamente collegate a credenze e pratiche quanto piuttosto tenute insieme e rafforzate dalla comune appartenenza a un’associazione. Attraverso la religiosità simbolica l’appartenenza al cattolicesimo, al cristianesimo, all’islam si può tradurre nel riconoscimento di una comune identità, condivisa e praticata all’interno delle attività associative, ma non necessariamente legata all’osservanza delle pratiche. Si applica
quindi una dissociazione fra il praticante e chi riconosce nella religione un riferimento culturale e identitario. Su questa distinzione, prendono forma nuove richieste e nuove relazioni (più sul versante della collaborazione e della compartecipazione che della rottura e della contrapposizione) con le realtà locali. Il fine non è tanto il riconoscimento tout court delle proprie pratiche e delle specificità, quanto quello del diritto alla diversità e la promozione di politiche interculturali, in cui la differenza religiosa sia uno degli elementi del tessuto sociale cittadino e non un fattore di conflitto.

I commenti sono chiusi.