Vittorio Emanuele Parsi – PAURA E LIBERTÀ

(estratto da Paradoxa 1/2008)

1. La paura rende liberi

La paura dell’uomo rispetto all’incertezza e all’insicurezza cui sono sottoposte le sue relazioni sociali è comunemente considerata la causa ultima del rapporto di obbligazione politica. Dal momento che l’uomo non può vivere un’esistenza “robinsoniana”, e poiché invece la possibilità di soddisfare i propri bisogni individuali dipende anche dalla collaborazione degli altri, la conformità dei comportamenti altrui rispetto a quanto ognuno desidera è requisito determinante per il conseguimento degli interessi individuali. In sostanza, dovendo l’uomo ricorrere a continui scambi con i suoi simili per procacciarsi le risorse necessarie a realizzare i suoi scopi, il successo è sempre esposto a un duplice rischio. In primo luogo non deve mai essere esclusa la possibilità che le ragioni di scambio possano variare, o che coloro con i quali ci siamo accordati per effettuare la transazione decidano improvvisamente di ritirarsi o di chiedere un prezzo spropositato e comunque diverso da quanto in precedenza pattuito. È il rischio dell’incertezza, cioè della situazione che sfida la sacralità del contratto, espresso nella massima pacta sunt servanda. Esiste poi un altro tipo di eventualità, ovvero quello di vedere la propria incolumità personale e il possesso dei propri beni esposti alla violenza, alla volontà altrui di sottrarci con la forza quello che altrimenti avrebbe dovuto essere acquisito attraverso la negoziazione. È il rischio dell’insicurezza, cioè della situazione più simile all’ipotetico stato di natura superbamente descritto da Hobbes.

E infatti, proprio sulle orme del filosofo inglese, è possibile individuare la radice dell’obbligazione politica nella necessità di cautelarsi innanzitutto rispetto alle minacce (di inadempienza e di violenza) che sono portate a ciascun uomo da ogni altro suo simile. È per porsi al riparo da questa prospettiva, legata al fatto che gli interessi possono essere esclusivamente di natura individuale e che le stesse nozioni di bene e di male non posseggono nessuna oggettività ma sono definibili solo in ordine alle proprie preferenze (nella lezione di Gianfranco Miglio), che gli uomini rinunciano alla propria sovranità individuale, e al conseguente diritto di fare qualunque cosa ritengano necessaria per proteggersi contro ogni minaccia presente e ogni pericolo futuro, trasferendo tale attributo al principe, allo Stato, cioè al nuovo sovrano. Alla base della costituzione di una comunità politica, quindi, c’è il riconoscimento che mentre le motivazioni che spingono gli uomini allo scambio sono naturali, e dipendono dalla distribuzione casuale delle risorse e dall’interdipendenza tra gli individui, le condizioni per cui questo scambio possa avvenire con garanzie di certezza e sicurezza sono artificiali: sono esse stesse il prodotto di un’azione specifica, che non solo affronta il tema della paura umana, ma anche se ne serve per giustificare la propria pretesa di estrarre risorse dalla società. La riduzione dell’incertezza e dell’insicurezza costituisce proprio lo scopo “elementare” dell’azione politica (come ricordava Mario Stoppino).

Non appena costituita, però, la comunità politica deve affrontare un secondo tipo di problema, di natura diversa dal mantenimento dell’ordine interno rispetto alle rivalità dei propri membri. Si tratta cioè di garantire la sicurezza della comunità dalle possibili minacce provenienti dall’esterno, che possono essere portate sia da singoli individui, sia da gruppi organizzati, sia infine da altre comunità politiche. Se la legge è lo strumento attraverso il quale si pacificano le relazioni interne alla comunità politica, i confini sono il mezzo grazie al quale si impedisce che le conseguenze del caos esterno minaccino l’ordine interno. Il “Leviathano” deve quindi possedere le risorse materiali e la volontà di regolare gli inevitabili conflitti che sorgono tra le preferenze individuali e di gruppo, ma deve anche riuscire a difendere la società dagli aggressori esterni e, anzi, su questa sua capacità fonda una parte non indifferente della legittimità del proprio potere interno. L’invenzione dello Stato moderno, questo incredibile artificio dell’ingegno umano, è per molti aspetti l’esito ultimo dello sforzo di razionalizzazione di una tale logica, con la sua pretesa di sovranità, rivendicata tanto verso l’interno (come supremazia rispetto a ogni possibile forma di autorità alternativa) quanto verso l’esterno (come non subordinazione nei confronti di ogni altra fonte di autorità).
Nell’esperienza storica dell’Occidente, lo Stato è l’istituzione che ha realizzato con maggiore efficacia la garanzia nei confronti di incertezza e insicurezza e che ha consentito di fuoriuscire da quella condizione di natura in cui la vita umana sarebbe “solitaria, misera, ripugnante, rozza e breve”, secondo la celebre definizione offerta da Thomas Hobbes nel Leviathano. Proprio nella possibilità di affidare a un “soggetto terzo” il “monopolio tendenziale della violenza” (nella nota formula di Max Weber), e di organizzare quindi secondo un principio gerarchico le relazioni di potere, sta ciò che tradizionalmente distingue l’arena domestica dall’arena internazionale. La condizione “anarchica” di quest’ultima affonda del resto nel presupposto della sovranità “perfetta” di ogni singolo attore statale, ovvero della sua capacità di “decidere del nemico e dell’amico”, secondo il celebre adagio di Carl Schmitt. In maniera per nulla paradossale, ne consegue che lo strumento adottato per affrontare (e cercare di risolvere) il problema della sicurezza nell’ambito “dell’arena domestica” debba essere annoverato tra le principali fonti potenziali di insicurezza “nell’arena internazionale”. Detto molto semplicemente: se è l’esistenza dello Stato a rappresentare la principale garanzia per la sicurezza dei propri cittadini verso ogni minaccia interna ed esterna, è proprio la presenza di più Stati indipendenti che mette a repentaglio la sopravvivenza delle persone, attraverso la loro partecipazione all’attività umana dagli esiti più incerti e insicuri: la guerra. Negli anni della lunga Guerra fredda, abbiamo avuto sotto gli occhi la più potente e paradossale rappresentazione di una simile opposizione. La pace internazionale era garantita dal cosiddetto “equilibrio del terrore”, cioè dal timore reciproco che l’avversario fosse in grado di scatenare una rappresaglia devastante nel caso di un proprio attacco preventivo. In altri termini, l’enorme capacità distruttiva accumulata dalle due superpotenze, e il terrore che ciò incuteva, rappresentava la principale garanzia di sopravvivenza per i rispettivi cittadini. Dove la garanzia andava interpretata “reciprocamente”, nel senso che le aspettative sul potenziale distruttivo dell’avversario facevano sì che la propria “parte” non si lanciasse in rischiose iniziative militari.

La versione integrale dell’articolo pubblicato sul fascicolo 1/2008 di ParadoXa

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