Vittorio E. Parsi – Perché la sfida per l’egemonia rimette in discussione il rapporto tra politica e affari

(Estratto da Paradoxa 2/2021)

 

1. La posta in gioco nel mondo post-pandemico

Come e quanto cambierà il mondo in conseguenza della pandemia? Ha un senso l’espressione già frusta di ‘geopolitica dei vaccini’? La reazione di fronte alle ricorrenti ondate di virulenza del Covid-19 sono prevalentemente nel segno della cooperazione o della competizione?
Sono queste le domande, tutte di per sé legittime, al di là della più o meno felice formulazione, che ricorrono e si rincorrono in questa stagione che nessuno di noi si immaginava così devastante e prolungata. Proprio la profondità, la forza e la portata del terremoto virale – per il quale il termine ‘resiliente’ appare paradossalmente appropriato – possono però indurci a sottovalutare un aspetto. Ovvero che, al di là delle sue cause scatenanti, la pandemia impatta su un sistema internazionale già da tempo in forte e crescente squilibrio e produce conseguenze che si sommano, amplificandole, a quelle che derivavano da crisi e shock precedenti e di natura diversa. A cominciare da quelli finanziari, che in maniera ricorrente e sempre più profonda e ravvicinata hanno colpito il mondo a partire dal 1990 – la data d’esordio del ‘mondo piatto’ che aveva sostituito il mondo diviso in due della Guerra Fredda. La natura della crisi pandemica è differente da quelle finanziarie: ma le conseguenze andranno nella medesima direzione. A meno che non intervengano decisi e volontari cambiamenti: ovvero una presa di consapevolezza politica della necessità di invertire un trend che rimonta alla metà degli anni ’70 del secolo scorso e che è diventato culturalmente e politicamente egemone nel corso dei decenni successivi.
La manifestazione più inquietante di questa egemonia, e della totale subalternità dei soggetti politici progressisti rispetto al suo rafforzarsi, è l’incredibile rinuncia a governare politicamente le conseguenze economico-sociali dell’innovazione tecnologica. Un fatto stupefacente, se si considera che nel corso dell’ultimo mezzo secolo abbiamo assistito ad almeno due rivoluzioni tecnologiche: quella della digitalizzazione e quella dell’intelligenza artificiale. La prima delle quali sarebbe stata impossibile senza lo sviluppo della miniaturizzazione dei computer e poi della loro portabilità, con tutti i processi connessi della telefonia e della trasmissione dei dati; mentre la seconda, ancora in corso, si nutre della prima e a sua volta la alimenta ulteriormente. Difficile non constatare come questi sviluppi tecnici abbiano comportato e comportino un considerevole mutamento nel tessuto economico sociale – e nei suoi equilibri – almeno pari a quelli verificatosi durante la ‘Grande Trasformazione’ degli anni ’20 e ’30 dell’Ottocento, descritta da Karl Polany nel suo omonimo libro del 1944 (non a caso concepito durante la Seconda Guerra Mondiale). Circa due secoli fa l’innovazione rappresentata dall’introduzione della macchina a vapore e del telaio meccanico determinò un cambiamento radicale dell’ordine socio-economico, per venire a capo delle cui conseguenze furono necessarie due guerre mondiali e una rivoluzione. Essa non generò nessun ricambio di classi dirigenti in Inghilterra, ma la saldatura tra i segmenti più intraprendenti della nuova borghesia e la vecchia aristocrazia che fino a quel momento aveva dominato il circuito politico. La convergenza tra gentry e aristocrazia era già in corso da tempo, ma ogni eventuale potenziale di rinnovamento legato all’affermazione dell’emergente borghesia industriale venne di fatto disarmato grazie ad accorte politiche matrimoniali (una forma particolare di cooptazione) e attraverso la dimensione della finanziarizzazione. Insomma, grande trasformazione sì, ma senza che ciò comportasse nessuna dinamica nel ricambio delle élite e, anzi, all’insegna della scelta consapevole di scaricare tutti i costi sociali derivanti dall’innovazione sui gruppi subalterni, per dirla con Gramsci.
Sembra difficile poter sostenere che ciò a cui stiamo assistendo oggi sia di natura differente o di dimensione minore rispetto a quanto avveniva duecento anni fa. Gli effetti della ‘logica degli algoritmi’ sono d’altronde ritenuti alla base dell’abnorme allungamento della leva finanziaria con l’ulteriore, macroscopica iper-finanziarizzazione dell’economia, legata anche alla possibilità di creare e gestire quei nuovi ‘strumenti creditizi’ che sono considerati tra i principali responsabili della magnitudine e velocità di propagazione delle crisi finanziarie del nuovo secolo. Più in generale, è proprio il loro devastante sviluppo e la loro ‘pandemica’ diffusione che hanno prodotto il divorzio tra la logica dell’economia reale e quella dell’economia finanziaria, decretando peraltro la sottomissione della prima alla seconda. L’applicazione dell’intelligenza artificiale al settore finanziario è già bene avviata e – per quanto meno spettacolarizzata di quanto avvenga nel campo della robotica – sta andando nella direzione di un’ulteriore chiusura oligopolistica dell’economia di mercato e, conseguentemente, verso il rinforzo delle posizioni dominanti al suo interno. Ciò non fa che confermare una tendenza in corso da decenni, ovvero quella per cui le riforme che si vorrebbero orientate al mercato e alla liberalizzazione della concorrenza, in realtà, nascondono provvedimenti finalizzati a proteggere politicamente le posizioni dominanti sul mercato stesso. Cioè in grado di facilitare la trasformazione di profitti imprenditoriali in rendite, in tal modo accentuando la dimensione ‘a-sociale’ della proprietà privata e amplificando la pretesa indipendenza della logica privata rispetto alla logica pubblica. La distinzione sottostante tra area del contratto-scambio e area dell’obbligazione politica convince peraltro sempre meno, considerando la spinta strutturale alla saldatura tra élite politiche ed élite economiche e la rentierizzazione (protetta politicamente) dell’economia.
La tendenza oligopolistica dell’economia manifestatasi con particolare enfasi nel corso dell’ultimo quarantennio è stata spesso spiegata dall’esigenza di concentrare i cospicui ed adeguati mezzi finanziari necessari per poter sostenere lo sviluppo tecnologico e la sua declinazione economica. Questa però assomiglia assai più a una giustificazione che a una vera e propria spiegazione. Perché è difficile non osservare come l’innovazione tecnologica sia difficilmente scindibile dalla ricerca ‘pura’ che, persino in questi decenni, è stata massicciamente finanziata dallo Stato, sia in forma diretta, sia in forma indiretta. E dove gli investimenti pubblici sono venuti meno – come nel nostro Paese – non sono certo stati rimpiazzati da quelli privati. Se poi accanto alle spese per la ricerca si sommano quelle per l’istruzione, il contributo pubblico alla creazione di un ambiente sociale e culturale nel quale più facilmente le idee innovative si impongano, e il loro sfruttamento economico prosperi, risulta ancora più decisivo. Determinare in che misura lo sfruttamento delle idee sia appropriabile da soggetti privati – cioè chi, quanto, come e fino a che punto possa trarre giovamento economico esclusivo del vantaggio prodotto dall’innovazione – è una questione politica e di politiche (fiscali e dei brevetti). Una dimensione che difficilmente potrebbe sembrare astratta oggi, quando l’interesse generale (la diffusione più capillare e rapida di vaccini anti-Covid a prezzi calmierati e a titolo gratuito per gli strati più poveri della popolazione mondiale) è sconfitto platealmente dall’interesse privato dei colossi farmaceutici, in grado di scegliere l’allocazione per loro più profittevole delle medesime quantità di vaccini (si veda il caso Astra Zeneca/Unione Europea).
Quello che sostengo è che la pandemia, nelle sue conseguenze, non rischia semplicemente di accentuare le tendenze in corso ma, allo stesso tempo – sia perché ha temporaneamente scosso la stabilità (apparente) dell’economia globale sia perché ne ha magnificato la gigantesca e crescente iniquità – offre invece una chance per uscire da una crisi etica e di sostenibilità (tanto in senso ambientale quanto umano) dell’ordine neoliberale globale che dura da molti decenni, e di muoverci verso una direzione diversa da quella da cui provenivamo e più rispondente a quel principio di equità (uguaglianza e libertà) a cui le democrazie non possono sottrarsi. La mia tesi è che un’economia globale sostenibile deve essere tale non solo rispetto all’ambiente nel quale l’essere umano si muove, ma anche rispetto allo stesso fattore umano: detto altrimenti, tra le risorse naturali verso le quali dobbiamo assumere un atteggiamento ‘ecologico’ – responsabile e rispettoso – rientrano a pieno titolo quelle umane (a cominciare da quelle che fin qui meno sono state lasciate concorrere allo sviluppo complessivo e alla determinazione della sua direzione e delle sue priorità, cioè quelle femminili). E se la dimensione artificiale dell’interdipendenza che abbiano costruito intorno a noi ha reso il fattore umano più ‘vulnerabile’, proprio mentre prometteva di dispiegarne al meglio le potenzialità, ebbene è giunto il momento di correggere un tale stato di cose e di ricollocare l’uomo e la donna al centro e in armonia con la natura.
Questo è in gioco adesso, mentre stiamo ancora cercando di lasciarci la pandemia alle spalle, di questo la politica dovrebbe occuparsi e su questo mi pare che si evidenzino segnali anche, e forse soprattutto, nello scenario internazionale.

2. Cosa succede quando ordine egemonico e stabilità finanziaria globale smettono di coincidere

In particolar modo è la nuova amministrazione americana che sembra aver deciso di affrontare per questa via la situazione della progressiva e relativa perdita di centralità degli Stati Uniti nel sistema politico internazionale. Il cosiddetto lungo momento unipolare del sistema – quello in cui gli Stati Uniti non avevano sfidanti, in cui la loro leadership era indiscussa e sostanzialmente accettata, in cui imponevano senza incontrare effettiva resistenza i principi e le pratiche di governo del mondo – è certamente alle spalle.
Quella fase si è logorata attraverso due passaggi principali. Il primo è avvenuto in conseguenza degli attentati dell’11 settembre 2001. In particolare, la decisione unilaterale di invadere l’Iraq nel 2003 ha alienato agli Stati Uniti il sostegno non tanto degli alleati – che comunque decisero di non portare le ragioni della loro opposizione fino alle estreme conseguenze – quanto dei Paesi che erano stati precedentemente ostili a Washington (su tutti la Russia) o che si erano allineati agli Usa solo in conseguenza della mancanza di alternative. La decisione di invadere comunque l’Iraq adottata dalla presidenza di George W. Bush – e le modalità con cui è stata attuata – ha fatto venir meno quel surplus di empatia che aveva circondato l’America dopo l’11 settembre e ne ha seriamente danneggiato il soft power.
L’atto di hybris imperiale non era però in grado – in quanto tale – di produrre conseguenze significative sulla supremazia americana. Essa sarebbe stata maggiormente danneggiata nel corso degli anni successivi: particolarmente dalla constatazione dell’inefficacia dello strumento militare nell’aver ragione di insorgenze estese e durature nei territori oggetto dell’intervento americano, non solo dove illegittimo e illegale (Iraq), ma persino dove autorizzato dalle Nazioni Unite e sostenuto da una poderosa coalizione (Afghanistan). In maniera non poi così diversa da quanto fosse avvenuto nel corso degli anni ’60 e ’70 in Vietnam e in Indocina, si è palesato di fronte agli occhi del mondo come l’impiego della forza militare nei confronti di movimenti di insorgenza diffusa e all’interno di scenari di prolungata guerra civile sia completamente inefficace. Con una differenza, però: che allora eravamo in piena Guerra Fredda e Unione Sovietica e Repubblica Popolare Cinese sostenevano politicamente e militarmente Vietcong, Khmer rossi e Pathet Lao, mentre in questo caso nessuna grande potenza rivale appoggiava gli insorgenti o i talebani (difficile considerare ‘grandi potenze rivali’ dei clienti americani come il Pakistan o l’Arabia Saudita).
Questo fallimento, pur grave, non bastava però a mettere seriamente in discussione la leadership globale americana, la quale era sempre più fondata anche su un primato economico-finanziario e tecnologico e su una incontestata guida della sua governance.
C’è un punto su cui vorrei soffermarmi brevemente. Il sistema globale emerso più compiutamente con gli anni ’90 – cioè dopo il crollo dell’Unione Sovietica – dal punto di vista finanziario non era per nulla anarchico. Era invece governato da un regime internazionale meno formalizzato del vecchio meccanismo di Bretton Woods del quale aveva preso il posto. Il vecchio accordo di Bretton Woods dalla fine della Seconda guerra mondiale all’inizio degli anni ’70 aveva assicurato due effetti: la stabilità dei cambi e di un’economia internazionale aperta (fondata sul commercio internazionale e su una limitata libertà di movimento transfrontaliero per i capitali) e la supremazia degli Stati Uniti. Non può sfuggire che gli ‘azionisti’ di quel meccanismo fossero gli Stati nazionali, i quali erano del resto chiamati a rispondere delle conseguenze ultime dell’eventuale instabilità del sistema. In questo senso, il meccanismo di governance finanziaria che si assesta a partire dagli anni ’90 – e che rimpiazza Bretton Woods, dopo circa un ventennio di tentativi e approssimazioni – è diverso perché i suoi azionisti diventano soggetti economici privati in grado di muovere grandi masse finanziarie, camuffati sotto l’altisonante nome dei ‘mercati’ (la cui dimensione sempre più imponente è frutto anche dell’innovazione tecnologica oltre che della nuova regolamentazione che consente loro di moltiplicare quantità e qualità di risorse e attività). Ma è diverso anche perché, il nuovo sistema scarica sulle economie reali nazionali (e in particolar modo sul costo del lavoro e sulle prerogative della forza lavoro) i costi di assestamento e riequilibrio. In questo senso non c’è alcuna forma di accountability che intralci tale scarico, proprio per la natura privata e non pubblica dei soggetti che concretamente operano sul mercato finanziario globale e che sono sempre più in grado di ‘catturare il regolatore’, fino, di fatto, ad esprimerlo, ovvero a coincidere con il regolatore stesso.
Dal punto di vista dell’egemonia americana – cioè il secondo ‘effetto’ assicurato da Bretton Woods – il regime internazionale che si afferma a partire dagli anni ’90 è uguale al precedente e, per certi versi, persino più efficiente. Nei ruggenti anni ’90 l’America torna il mozzo della ruota del sistema finanziario: non più internazionale ma globale. Gli ex nemici sono tutti integrati in quello che verrà definito ‘Washington consensus’, che restaura la supremazia americana per di più a un costo decisamente inferiore a quello sopportato negli ultimi anni della validità di Bretton Woods, con una deresponsabilizzazione delle autorità politiche americane rispetto alle fluttuazioni dei cambi e della stabilità finanziaria che ‘sfuma’ nella concezione dominante che i mercati debbano e possano autoregolarsi: cioè con uno switch tra quelli che sono i soggetti che possono ‘chiedere conto’ delle decisioni politiche – dai cittadini ai grandi detentori di strumenti finanziari, dalle elezioni politiche al ‘referendum quotidiano dei mercati’ – e ai quali viene comunque offerta la possibilità di scaricare i costi di assestamento sulle spalle altrui, attraverso la compressione salariale e dei diritti.
Contrariamente a quanto accadeva ai tempi della Guerra Fredda, anche gli oppositori maggiori della politica strategica di Washington vengono integrati dentro un sistema economico-finanziario globale a guida americana dal quale traggono consistenti vantaggi, in termini di accesso ai mercati, sia materiali che immateriali, e alle nuove tecnologie. D’altronde, la disparità in termini militari è tale da non consentire ad alcuno di sfruttare strategicamente anche errori disastrosi come l’invasione dell’Iraq. Non solo. Anche in termini ‘ideazionali’ neppure Pechino o Mosca, cioè gli attori politici maggiori dopo Washington, apparivano in grado – e neppure fino in fondo intenzionati – ad articolare proposte chiaramente alternative a quelle americane. La vittoria nella Guerra Fredda aveva più che compensato la fine del regime di Bretton Woods e creato le basi per quel nuovo regime di governance del sistema finanziario globale che nessuno si sognerà di sfidare fino al post-2008.
Sarà necessario infatti un altro ‘infortunio’, questa volta operato nel campo finanziario, a spingere soprattutto la Cina, fino a quel momento sostanzialmente allineata rispetto agli Usa, a valutare che il modo in cui Washington governava il sistema economico-finanziario non fosse più conveniente per i suoi interessi e anzi, semmai, rischiasse di danneggiarli. Sarà la crisi finanziaria del 2007/2008 – quella alla base della ‘grande recessione’ – a spingere Pechino a ‘pensarsi’ come un possibile leader alternativo del mondo globalizzato o, quantomeno, ad anticipare i tempi di una sfida portata sempre più apertamente. Le cause completamente interne al mercato finanziario americano della crisi – e il modo in cui essa si scaricò verso l’esterno – indussero le autorità politiche cinesi a ritenere che il costo del ‘diritto di signoraggio’ di Washington sul sistema finanziario globale fosse divenuto di gran lunga superiore ai ricavi che Pechino poteva estrarre, persino al netto del free-riding cinese (che le modalità di ammissione della Cina al Wto aveva legittimato). La creazione di una serie di infrastrutture a carattere regionale, in grado di suscitare attenzione e coinvolgimento non solo da parte dei Paesi dell’Asia centrale e orientale, ma anche della Russia e della stessa Europa inizia a essere concepita e realizzata proprio a partire dal decennio che si apre dopo il 2008.
Quella che i governanti cinesi giudicano una hybris finanziaria è molto più importante e grave di quella imperiale: rappresenta un vero e proprio casus belli, soprattutto perché il mondo post-Guerra Fredda è un mondo unificato innanzitutto e soprattutto a partire dalle – e in forza delle – dimensioni economiche e finanziarie. Ancorché i sistemi capitalistici restino diversi per i rapporti che intrattengono con i rispettivi sistemi politici (capitalismo di mercato vs. capitalismo di concessione), i loro attori agiscono in un unico mercato finanziario globale, che tende a non enfatizzare e anzi a smussare le differenze. Come vedremo a breve, proprio questo punto risulterà decisivo per la controffensiva organizzata dalla presidenza Biden all’inizio del suo mandato. Mentre il ‘capitalismo di mercato’ è fondato sull’idea della separazione tra economia e politica, con la costante preoccupazione della protezione della prima dai tentativi di ‘predazione’ da parte della seconda, il ‘capitalismo di concessione’ è organicamente dipendente dal favore del principe: un favore sempre soggetto a possibile revoca (si pensi a quanto avviene in Cina, in Russia o nelle monarchie del Golfo). Se il primo tende a generare oligarchie timocratiche e la cattura del regolatore da parte dei più forti tra gli interessi regolati, nel secondo la possibilità di arricchirsi è il corrispettivo della fedeltà al potere politico e produce ‘oligarchie composite’ (politico-economiche) omogenee tra loro, alla fin fine poi non così diverse da quelle che si ritrovano nel sistema ‘rivale’.
Il paradosso, per nulla innocuo, è che gli attori economici hanno però tutti le medesime sembianze, sono cioè apparentemente indistinguibili gli uni dagli altri dal punto di vista organizzativo e strutturale e perseguono tutti le medesime finalità: il profitto. Ancorché il loro rapporto con i rispettivi sistemi politici li renda in realtà molto diversi nei condizionamenti che ne determinano l’agire. Se quelli ‘occidentali’ tendono a manipolare i rispettivi sistemi politici – svuotandone l’accountability che dovrebbe trovare nella comunità dei cittadini e delle cittadine il soggetto referente – quelli ‘orientali’ rispondono del loro operato ai detentori di un potere politico che non ha altri referenti che se stesso. In tal senso costituiscono una minaccia in più per le nostre società aperte (nella misura in cui lo sono), dei veri è propri ‘cavalli di Troia’, che una volta omologati agli altri soggetti e lasciati agire nei settori più sensibili potrebbero facilmente portare alla conquista incruenta delle nostre società. Il caso 5G-Huawei credo sia abbastanza esemplificativo. Così, alla minaccia interna – lo svuotamento nell’efficacia della prassi delle nostre democrazie ad opera della progressiva oligarchizzazione economica e politica – si somma quella esterna – da parte di soggetti che restano sempre ad nutum di un potere politico alieno e ostile ai principi della democrazia.

3. Perché la risposta americana alla sfida egemonica cinese comporta una nuova governance dell’architettura finanziaria internazionale e una ripresa dell’equità e inclusività domestica

La controffensiva americana non può quindi che essere fondata sulla sottolineatura delle differenze tra il modello occidentale e quello sinico dell’articolazione tra sistema economico e sistema politico, associata, in chiave internazionale, al vecchio e solido argomento – un vero e proprio cavallo di battaglia – che l’egemonia americana sia sempre e comunque ‘il male minore’ rispetto a qualunque altra egemonia (meglio di quanto proposto da Hitler, da Stalin, da Xi…). Si tratta del classico punto liberale ‘accomodato’ con una dose di realismo. Ma affinché il messaggio sia efficace, deve poter essere credibile. Ovvero i due modelli devono essere distinguibili: cosa che è sempre meno evidente a fronte della progressiva oligarchizzazione dei sistemi economici e politici occidentali. Nell’azione concreta e nei messaggi che l’amministrazione Biden lancia ai suoi cittadini e al mondo emergono, non a caso, due linee di tendenza, coerenti tra loro. In primo luogo, c’è la sottolineatura forte e costante delle differenze sul piano normativo e dei principi di governo del sistema internazionale tra la proposta americana e quella cinese (o russa, per quanto assai meno credibile come rivale strategico). Ma poi c’è anche la rimessa a tema dei caratteri di equità e inclusività che una democrazia associata a un capitalismo di mercato deve garantire.
La sfida che caratterizzerà i prossimi anni è quindi duplice, ed è lanciata tanto nei confronti dei ‘rivali internazionali’ di matrice autoritaria quanto verso la deriva che le democrazie – in primis quella degli Stati Uniti – hanno conosciuto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso. È una sfida nutrita dalla consapevolezza che il rilancio dell’Occidente – di cui gli Stati Uniti restano il pilastro indispensabile – passa necessariamente per la capacità della sua proposta ideale e organizzativa di tornare a essere attrattiva e credibile anche di fronte alla complessità del nuovo secolo. Non si tratta tanto e solo di affermare una superiorità in termini di potere e di ricchezza, ma invece di sviluppo e di progresso: ovvero della capacità delle democrazie occidentali di essere anche dei modelli di ‘sistemi anticipanti a prova di futuro’ migliori di quelli proposti dai rivali autoritari. Ovvero sistemi che, in un quadro di trasformazioni radicali e di crescenti livelli di incertezza, consentano sia di comprendere le dinamiche in atto, così da prepararsi in anticipo rispetto ai cambiamenti prevedibili, sia di reagire tempestivamente all’elemento di imprevedibilità che ogni futuro porta con sé è che è destinato ad aumentare proprio per l’incremento di complessità che caratterizza il nostro tempo. Infatti, la logica dell’anticipazione incorpora al suo interno tanto l’orientamento all’azione quanto una comprensione più sofisticata della complessità e dell’intreccio dei fenomeni sociali. Quindi, se vogliamo far sì che i principi di equità, eguaglianza e libertà abbiano anche un presente e un futuro – e non solo un glorioso passato – dobbiamo essere disposti a credere che la democrazia sia il sistema più coerente rispetto a tale logica.
La scommessa dell’amministrazione Biden è che la democrazia sia il sistema più coerente rispetto a tale logica. Dal mio punto di vista si tratta di una scommessa vinta in partenza, se solo (e solo se) prendiamo sul serio democrazia. Perché la complessità del futuro è governabile solo se la si sa anticipare e, in tal modo, concorrere a influenzare, in una sorta di macchina del tempo che continuamente fa la spola tra futuro e presente: consapevoli che le decisioni prese oggi in base alla nostra capacità di anticipare il domani lo renderanno diverso e che questo esito atteso, a sua volta, rimbalza sul presente in un meccanismo di rimandi infiniti. La democrazia è anche il metodo di governo meglio attrezzato per gestire il fenomeno dell’eterarchia, in cui più gerarchie e reti di attori si intrecciano e retroagiscano continuamente.
L’applicazione della logica dell’anticipazione ci consente di articolare in maniera differente sia la dimensione temporale sia quella spaziale, trasformandole da vincoli in opportunità. Iniziamo dalla prima. Le decisioni che assumiamo nel presente, sono ovviamente influenzate dai rapporti di forza che derivano dal passato, ma possono (o possono non) essere illuminate dalla nostra capacità di immaginare un futuro e anticipare i nostri comportamenti attuali alla luce di come pensiamo di intercettare e trasformare il futuro stesso. Detto altrimenti, ragionando in termini di anticipazione, il presente non è né schiavo del passato, né dettato dal futuro. Ma è invece il tempo in cui, attraverso le concrete decisioni che vengono assunte, si concorre a delineare e a avvicinare un futuro – immaginato, desiderato e non meramente previsto – mentre se ne scongiurano altri. La politica – per la sua componente di lotta per il potere, cioè di competizione per il controllo del processo decisionale – si colloca sempre nel presente. Ma è nella sua dimensione ‘immaginativa’ – di ‘vision’, come spesso viene oggi declinato il concetto – che la politica può scegliere di essere anticipante rispetto al futuro (così cercando di orientarlo) oppure limitarsi a prevederlo come una mera proiezione lineare del passato (e quindi rassegnarsi a essere inerme). È l’ancoraggio al passato e alle sue logiche che rende il futuro qualcosa di incombente che schiaccia il presente, lo interpreta come una fase transitoria che pretende ‘scelte obbligate’ e ‘riforme necessarie’, nel nome del TINA (there is no alternative) di thatcheriana memoria. Ma ogni volta che ci facciamo dettare il presente da un futuro presentato come incombente, in realtà ci stiamo incatenando al passato e, soprattutto, ai rapporti di forza e potere che dal passato provengono.
Il paradosso è che la politica correttamente intesa ha sempre esercitato questo lavoro di spola tra presente e futuro, anche confrontandosi nel presente sulle diverse prospettive di futuro, e chiamando a raccolta intorno a queste ultime. Una volta che invece si consideri il futuro come un dato di fatto – e purtroppo riusciamo a farlo persino quando esso ci pone di fronte a rotture ed evoluzioni inattese – della politica resta solo la dimensione della competizione per il potere fine a se stessa – tutta orientata dal ‘presentismo’- in cui il controllo del processo decisionale significa esclusivamente il potere sulle risorse esistenti. Che assuma le forme di predazione di quelle private da parte delle oligarchie del comando (come nel modello autoritario) o di appropriazione dei beni comuni da parte di quelle della ricchezza (come nel modello timocratico) poco cambia, e ancor meno fa differenza per la gran parte dei cittadini e delle cittadine: si tratta sempre di privilegio e oligarchia, si tratta sempre della prevalenza degli interessi dei pochi su quelli dei molti.
In termini spaziali, l’applicazione della logica dell’anticipazione parte dalla consapevolezza che è impossibile isolare ciò che avviene all’interno di uno specifico luogo rispetto a quanto succede all’esterno. Neppure il ricorso al principio e alla prassi della sovranità riesce più a farlo. Ma questo non determina la ‘dittatura’ della dimensione internazionale su quella nazionale (o di qualunque altro ambito nel quale la sovranità si collochi, come nel caso dell’Unione Europea). Persino il sistema ‘globale’ contemporaneo – con il pluralismo di attori che lo abita: Stati, popoli, imprese, organizzazioni e istituzioni di natura diversa, individui – si fonda su pilastri che mantengono una dimensione ‘locale’. E il mondo non sta passando da una fase statale a una globale o a una cosmopolita: semmai è vero che, com’è tipico della complessità, le dimensioni coesistono e che la realtà è un campo di forze multidimensionale. Il mondo è contemporaneamente ‘liscio’ e ‘striato’, globale e locale, unificato e frammentato. La riformabilità del sistema globale – che fino a ieri appariva (e in parte era) dominato invincibilmente dagli interessi dei grandi attori finanziari – è oggi resa possibile dall’impatto devastante della pandemia, che interpella una visione cosmopolitica e umana perché colpisce tutte le società e tutti gli umani, ma che sarà perseguibile solo a partire dalle decisioni politiche degli Stati, che restano i depositari della legittimazione del potere.

4. Dopo la pandemia: per un Rinascimento occidentale

Quando Biden, nel nome di un principio di equità e di un principio di efficacia nella lotta alla pandemia invoca la moratoria della validità dei brevetti sui vaccini, ovvero una sospensione temporanea di questa particolare forma di protezione della proprietà privata, lo fa a partire dalla legittimazione che gli deriva dalla sua qualifica di presidente degli Stati Uniti. Rivendica il dovere di una leadership politica nei confronti dei suoi cittadini e delle sue cittadine, scegliendo di tutelare l’interesse generale a scapito di interessi privati: in sé legittimi, ma che, tanto più in condizioni straordinarie come le attuali, devono piegarsi di fronte al bene comune. La sua azione mette di fatto al servizio di un interesse nazionale (evitare che i cittadini americani siano colpiti da nuove varianti del virus se questo sarà lasciato diffondersi oltre confine) e di un interesse universale (la vaccinazione delle popolazioni più povere) il peso dello Stato (la superpotenza americana), mentre contemporaneamente ricerca la collaborazione degli altri Stati (attraverso lo strumento del multilateralismo).
È decisamente scoraggiante vedere come l’Europa – intesa sia come Unione sia come insieme dei suoi Stati membri – faccia fatica ad abbracciare la logica nuova che proviene da Oltreatlantico e che è la sola che può consentire di rivitalizzare i nostri affaticati sistemi democratici. Con la sua dichiarazione del 4 maggio a favore della sospensione dei brevetti su vaccini anti-Covid 19, il presidente Biden ha mostrato al mondo come la forza dell’esempio sia un fattore decisivo per riconquistare la leadership politica e morale del sistema internazionale. Ha anche fatto intendere che la cosiddetta ‘geopolitica dei vaccini’ non può seguire il frusto cliché di un vecchio e male inteso ‘realismo’: vince invece chi è capace di uscire da una logica a somma zero, in cui gli Stati impiegano i vaccini come se fossero armi. Ha infine incastonato un altro elemento nella sua visione della società americana: una visione apertamente progressista, che non ha timore di affrontare il drastico riequilibrio dei rapporti tra politica e affari. Dove alla prima spetta l’onere di indicare gli obiettivi e fissare i limiti, assumere cioè la responsabilità di garantire il campo e le regole in cui il gioco della competizione economica si svolge.
È il complemento internazionale del discorso del 29 aprile, nel quale Joe Biden aveva attaccato le grandi corporations, accusate di aver accumulato profitti stratosferici ed eluso le tasse nello stesso anno in cui decine di migliaia di americani e americane perdevano la vita e milioni il posto di lavoro. Una nuova forte affermazione di come, nella sua visione, la dimensione domestica e quella internazionale siano connesse e interdipendenti, senza che questo implichi necessariamente l’impotenza dei governi e la loro sudditanza verso i titolari di grandi interessi finanziari. Dopo i giganti dell’economia virtuale e digitalizzata è il turno di big pharma – i settori che la pandemia ha reso sempre più ricchi – a dimostrazione che la prima condizione del cambiamento è la volontà di perseguirlo.
È immaginabile che la decisione americana sia stata volta anche ad azzerare il vantaggio in termini di soft power che Russia e Cina avevano accumulato in questi mesi, con la loro tempestiva fornitura di vaccini dal costo inferiore ai Paesi stranieri che ne facevano richiesta. Ma ha messo contemporaneamente in evidenza i vantaggi delle società aperte e delle istituzioni democratiche su quelle autoritarie. E costringe tutti a confrontarsi con la mossa americana. A partire dai Paesi europei e dalla stessa Unione che fatica ad abbandonare la stolida difesa assoluta di questo particolare ‘diritto di proprietà’.
L’altruismo è la sola strategia intelligente di fronte a una pandemia globale. E può essere imposto a manager e azionisti recalcitranti delle grandi compagnie produttrici da una volontà politica che, per una volta, si dimostri capace di incrociare l’interesse generale dell’umanità per un bene pubblico comune come la salute e le decisioni dei governi, la cui base di consenso e legittimazione resta nazionale. È un cambiamento di prospettiva radicale rispetto alle tendenze degli ultimi 40 anni. È una speranza per il governo della complessità, rifuggendo dalle illusioni semplicistiche e ricercando piuttosto soluzioni nuove, in cui multilateralismo (tra gli Stati) e cosmopolitismo (tra gli umani) si saldano in una possibile e inedita alleanza. Ma soprattutto ci rammenta che l’opportunità di cambiamento è oggi resa possibile proprio dalla magnitudine della crisi, dalla sua natura universale, e indica la direzione verso un ‘governo’ del mondo globalizzato che non continui a sacrificare vite umane sull’altare del profitto ad ogni costo.

5. Next EU

L’Europa – intesa come il percorso e l’esito istituzionalizzato e politico di un processo continuo di unificazione – è la sola concreta speranza che i cittadini e le cittadine del nostro vecchio continente hanno di fronte al futuro. Perché lo sia davvero, però, è necessario che torni a porsi in una posizione di attivismo anticipatore rispetto al mondo post-Covid. Che ricordi a se stessa che la democrazia è composta di un insieme di procedure e di un set di valori: i quali sono continuamente messi alla prova dalle sembianze mutevoli che l’eterno tentativo di svuotarla continuamente assume. Lo scontro su brevetti e vaccini è in tal senso un segnale di allarme sulla fatica con cui il dibattito culturale e politico europeo registra e coglie la posta in gioco. Che non è la rapidità maggiore della produzione e distribuzione di più grandi quantità di vaccini, ma la legittimità che compagnie che hanno sviluppato rapidamente i vaccini necessari per contrastare la pandemia anche grazie a giganteschi trasferimenti pubblici e che si trovano davanti un mercato garantito (nei confronti del quale sono legalmente protetti anche rispetto ad eventuali malfunzionamenti del prodotto) si approprino di un extraprofitto assicurato. Più in generale, la questione politica è ancora più sottile. Se dovremo convivere per anni con varianti ricorrenti di Covid-19, se dovremo sottoporci a vaccinazioni annuali obbligatorie, come intendiamo evitare che tutto ciò generi gigantesche concentrazioni di profitti nelle mani di soggetti privati? O pensiamo che questo non accentuerà la tendenza alla oligarchizzazione delle nostre democrazie e dei nostri sistemi economici, cioè a produrre ‘timocrazie’? È un tema che interpella il rapporto tra beni pubblici e interessi privati e non coglierlo è una pessima declinazione di quel che si intende per ‘il futuro della prossima generazione di europei’.
Ciò che lascia più perplessi è l’incapacità europea di interrogarsi sul rapporto dell’uguaglianza con la libertà. È una relazione che si trova al cuore del liberalismo e che, per potersi risolvere nel nome dell’equità, deve essere continuamente manutenuta. Negli Stati Uniti, dove la cultura politica liberale è egemone – e conosce continue, spesso aspre e radicali oscillazioni tra le sue declinazioni conservatrici e quelle progressiste – sembra che questa consapevolezza sia maggiore. In Europa, dove accanto alla cultura politica liberale erano tradizionalmente forti quella socialista e cristiano-popolare, sembra che – indebolite le ultime due – siamo rimasti intrappolati in un ‘liberalismo monco’. Cioè quella versione sbilanciata di liberalismo politico che lo fa coincidere con il mero liberismo economico, in particolar modo nella sua declinazione neoliberale degli ultimi 40 anni. Tanto quanto il poderoso lobbying di cui le istituzioni europee sono fatte oggetto, credo che sia questo ritardo culturale a spiegare le difficoltà europee nel cogliere il cambiamento. Accanto alla lotta contro gli interessi e i poteri consolidati, è una battaglia culturale quella in cui occorre impegnarsi, se vogliamo rilanciare l’efficacia, la prospettiva e il ‘calore’ dell’idea di Europa, oggi più necessaria che mai.

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