Laura Paoletti – TRA ZUCKERBERG E HEGEL

(Editoriale di Paradoxa 3/2023)

Per mettersi in sintonia, emotiva prima che intellettuale, con queste pagine, sarebbe utile riguardare il film del 2010 di David Fincher, The Social Network, che racconta la nascita di Facebook dall’idea di un introverso studente di Harvard, non particolarmente brillante nelle interazioni sociali. In particolare, è interessante l’effetto di ambivalenza che la narrazione suscita e vuole suscitare. Per un verso, lo spettatore è portato a riflettere sulla paradossale solitudine di colui che ha messo in contatto miliardi di persone e che nell’ultima, tristissima scena, aggiorna compulsivamente la pagina del proprio profilo sperando in una risposta che non arriva. Per altro verso, però, lo stesso spettatore non può fare a meno di lasciarsi trascinare dall’entusiasmo per l’eroica epopea di un ragazzetto che, grazie alla sua creatività (e furbizia), passo dopo passo fa raggiungere alla sua creatura dimensioni colossali, acquisendo di riflesso la statura di un semidio, al di sopra di convenzioni e regole. È difficile reprimere un moto di soddisfazione e genuina ammirazione quando in occasione di un dibattimento, ad un avvocato di parte avversa che, vedendolo distratto, chiede al signor Zuckerberg se può degnarsi di prestargli la sua attenzione, il giovanissimo miliardario risponde che no, un semplice avvocato non è degno della sua attenzione, perché quella è riservata «agli uffici di Facebook, dove io e i miei colleghi stiamo facendo cose che nessuno in questa stanza è intellettualmente o creativamente capace di fare».

Il personaggio di Mark Zuckerberg incarna alla perfezione un fenomeno che permea in profondità la nostra epoca e sul quale questo fascicolo intende richiamare l’attenzione, individuando in esso la radice di una crisi non fisiologica, ma sistemica: quello del «singolarismo». Si tratta di una declinazione contemporanea del vissuto dell’identità, che conferisce a quest’ultima un’accentuazione peculiare, tale da renderla qualcosa di più del semplice contraltare della differenza: il singolarismo è l’esigenza di esser riconosciuto non già come uno dei molti esemplari di una specie, ma come un individuo speciale, diverso da tutti gli altri, che vuole essere valorizzato, ammirato, amato per i propri talenti e per la propria irripetibile originalità, tanto più creativa quanto più refrattaria ad ogni schema o standardizzazione. Ci si iscrive su Facebook (metonimia per i social in genere), perché Facebook promette a ciascuno lo status extra-ordinario del suo inventore.

Questo modo di vivere il proprio sé, che, come è facile intuire, è tutt’uno con il rischio permanente di una radicale solitudine, ha ripercussioni estremamente concrete. Al lettore il compito di riannodare i vari contributi a questo filo conduttore, talvolta sottotraccia, che mostra la sua efficacia euristica nel dipanarsi su fronti molto diversi e apparentemente irrelati: l’imporsi dell’ideologia meritocratica, che sancisce sul piano etico il paradigma di un individuo che deve tutto soltanto a se stesso; l’incremento esponenziale delle disuguaglianze, giustificate dalla necessità di tradurre sul piano economico l’eccezionalità del talento; lo strapotere che al mercato conferiscono i big data, capaci di profilare non più il consumatore medio, ma quel singolo consumatore. Persino quella che potrebbe sembrare una semplice omonimia, ovvero l’idea di singularity sul piano tecnologico, che è alla base del progetto transumanista, si può in realtà «connettere alla stessa forma mentis che permea […] i comportamenti sociali», come opportunamente esplicita Francesca Rigotti in un testo di riferimento per diversi autori (L’era del singolo, Einaudi, 2021, p. 52) e anticipato, per altro, da un contributo scritto per «Paradoxa» (1/2021).

Senza poter rendere giustizia alla molteplicità di prospettive, interpretazioni e possibili strategie di gestione degli effetti del singolarismo che ciascuno degli autori si incarica di proporre, ci limitiamo qui a sottolineare uno degli aspetti più interessanti, teoreticamente stimolanti e perciò problematici, che emerge dall’insieme: le coordinate con cui siamo abituati a strutturare lo spazio sociale e politico delle interazioni intersoggettive – destra e sinistra, libertà e giustizia, privato e pubblico, interesse e gratuità – non sono più efficaci nell’aprire la singolarità del singolo a possibilità di un’autentica aggregazione. Il che porta a chiedersi se non sia forse proprio la logica binaria in quanto tale – che, per altro, è quella che struttura algoritmi, IA e tecnologia digitale in genere – che deve essere ripensata: non è un caso che uno dei nomi che ricorrono forse con maggior frequenza in queste pagine sia quello di Hegel. Come è noto, il punto nevralgico (e forse dolente) del pensiero hegeliano è proprio quello di cogliere nel reciproco opporsi dei differenti la scaturigine creativa di un «superamento» dell’opposizione stessa; un terzo che è dato, piuttosto che escluso, e che riconfigura la relazione su un piano più alto riconciliando l’opposizione: è quanto accade nel caso paradigmatico del «riconoscimento» che trasfigura il conflitto tra autocoscienze in una relazione di libertà. Ora, questo tipo di strategia risolutiva, che risuona in queste pagine come un Leitmotiv, è essenzialmente fondato sulla simmetria tra gli elementi in gioco, tra il servo e il padrone, tra lo stesso e l’altro, tra l’identità e la differenza in genere: e non è del tutto chiaro, in effetti, se il ‘singolo’ (categoria assai presto utilizzata in funzione esplicitamente antihegeliana) non si sottragga per principio a questa simmetria e se possa esser ricompreso nel gioco dialettico. Non è certo quindi che il riconoscimento possa essere la soluzione, oltre che il problema, né che il riconoscimento e la responsabilità, su cui pure qui si insiste molto, siano due facce di una stessa medaglia o se non identifichino strategie di gestione del problema intersoggettivo francamente alternative. Quel che è certo è che, come scrive il Curatore, la crisi che il singolarismo ingenera non è «dialettica», ma «entropica» (p. 13). Non è dialettica, appunto.

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