Laura Paoletti – PROGRESSISTI SI’, MA…

(Editoriale di Paradoxa 1/2024)

L’identikit del progressismo che emerge da questo fascicolo è un ritratto à la Picasso: singoli elementi figurativi sono chiaramente riconoscibili, ma all’occhio non è concesso rilassarsi nella percezione di una forma complessiva capace di armonizzarli in un’immagine stabile, come se prospettive diverse scomponessero il quadro d’insieme su una pluralità di dimensioni non necessariamente compossibili in un unico spazio. Il che, per altro, conferma una tendenza generale: è dal numero del 2008 su ‘destra’ e ‘sinistra’ che «Paradoxa» si interroga sulle categorie che strutturano e orientano lo spazio della politica: e, in un percorso di ricerca che ha chiamato in causa, oltre a quella coppia in certo senso primigenia, diverse altre nozioni cardine della scienza e della filosofia politica – ‘democrazia’, ‘liberalismo’, ‘cultura politica’ –, si è reso via via più evidente che immaginare tale spazio come compreso e compresso in un sistema di assi cartesiani, capaci di attribuire a ciascun punto una posizione univocamente determinata, è semplicistico. I conti, come si dice, non tornano: le coppie di assi si moltiplicano (Rigotti) e non sempre danno luogo a coordinazioni stabili e chiarificatrici. Il ‘progressismo’ non fa eccezione: chi cercasse tra queste pagine un’icona, un’immagine stilizzata adatta a un elogio trionfalistico e militante, ad affermarne la sensatezza, il suo configurare un’opzione diametralmente opposta e incontestabilmente preferibile al suo contrario (il conservatorismo?), resterebbe deluso.

Non che non vi sia qui lo sforzo di rintracciare le ragioni in favore di una presa di posizione politica progressista: ma si tratta di un percorso accidentato, faticoso, che obbliga il lettore a guardare in faccia, senza infingimenti, tutti i motivi di prudenza, perplessità ed eventualmente ripensamento.

Un primo elemento da considerare è che, sebbene sia con facilità riconducibile a uno spazio largamente sovrapponibile a quello della ‘sinistra’ e sebbene vanti una storia nobile e un’esperienza politica di tutto rispetto, il progressismo è in certo senso orfano. Come osserva Pasquino, è difficile trovare sul fronte progressista il corrispettivo di quel che Edmund Burke ha rappresentato per il pensiero conservatore, che infatti poggia su «un terreno di idee e di pratiche più solide» e mostra, a dirla tutta, un maggiore «appeal»: non è quindi un caso se lo stesso Pasquino, nel tentativo di individuare alcuni principi guida del progressismo, scelga di procedere per contrapposizione rispetto a quella quintessenza del conservatorismo che è la triade Dio-patria-famiglia. D’altra parte, non è nemmeno così scontato che si possa identificare un’area compatta quale polo diametralmente opposto del progressismo: che vi siano contiguità inavvertite tra atteggiamenti politici apparentemente contrapposti è quanto emerge chiaramente dal saggio di Cofrancesco. Ma l’elemento forse più bisognoso di un radicale ripensamento è proprio il concetto cardine di ‘progresso’, sul quale si concentra l’attenzione della maggior parte dei contributi, a cominciare da quello della Curatrice.

A partire dall’illuminismo, la fiducia nel progresso, cioè nell’idea di un complessivo procedere del genere umano verso il meglio, ha funzionato non soltanto come giustificazione dell’opportunità di assumere un atteggiamento politico volto a favorire e promuovere il cambiamento, ma anche come una sorta di garanzia; laddove, per contro, la convinzione di dover piuttosto preoccuparsi della conservazione dell’esistente era motivata da una concezione fondamentalmente entropica del corso della storia, tale per cui lo scorrere del tempo è direttamente proporzionale ad un incremento di disordine che deve in qualche modo essere frenato. Ora, che una simile idea di progresso, e le filosofie della storia (da Hegel a Marx a Comte) che su di essa si basano, non sia più sostenibile è un dato di fatto che sarebbe difficile mettere in questione e che implica alcune significative correzioni nella definizione del ‘progressismo’. La prima consiste nello slittamento dalla nozione di progresso a quella, di matrice darwininana, di evoluzione: nessun orientamento teleologico a priori, ma una serie di prove, errori e contingenze che consentono in qualche caso, e senza alcuna garanzia, di trasformare una situazione in senso migliorativo; ma niente esclude, anzi, che si possa assistere a forme di vero e proprio regresso (Loretoni). La seconda correzione sostanziale consiste nell’obbligo di distinguere, ogni volta di nuovo, tra la semplice constatazione di un passaggio da uno stato a un altro e la valutazione in virtù di cui tale passaggio è considerato come un miglioramento (Nannini). La terza modifica correzione di un progressismo ingenuo è l’introduzione di una distinzione il più nitida possibile tra il progresso scientifico, con il connesso avanzamento tecnologico, e il progresso morale. Non solo, come è ovvio, è possibile che lo sviluppo della tecnologia non comporti alcun miglioramento rilevante sul piano valoriale, ma è anche possibile il caso, a prima vista paradossale, che a un evidente accrescimento della consapevolezza etica in un certo ambito faccia riscontro un oggettivo peggioramento morale favorito proprio dallo sviluppo tecnologico, come dimostra molto efficacemente Pollo a proposito delle relazioni tra esseri umani e animali.

Da ciò scaturisce un progressismo riveduto e corretto, radicalmente non ideologico e che si potrebbe definire a buon diritto critico: un atteggiamento politico che consiste fondamentalmente nella capacità di guardare in modo non sfavorevole e non timoroso al cambiamento, il quale, però, non è ritenuto un valore in sé, ma solo nella misura in cui si dimostra capace di introdurre un miglioramento che appare tale a certe condizioni valutative da esplicitare e definire ogni volta; un atteggiamento che per queste ragioni è essenzialmente riformistico (Mancina, Diotallevi), piuttosto che massimalista o rivoluzionario, e che si sostanzia della capacità di critica all’esistente, cioè di individuare situazioni ingiuste e di immaginare possibilità alternative; un atteggiamento che non ha remore nel conservare e tramandare tutto ciò che del passato è prezioso e decisivo per costruire il futuro, persino il concetto di ‘nazione’ che non è affatto appannaggio, come si vorrebbe far credere, del sovranismo. Ma, per riprendere la conclusione di Pasquino, «non finisce qui»: è difficile, infatti, concludere la lettura di queste pagine senza chiedersi se, alla luce di tutto questo, il termine stesso ‘progressismo’ sia ancora o davvero il più efficace per definire una posizione politica di questo genere o se non sia invece opportuno sperimentare soluzioni alternative.

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