Paola Grimaldi – LA MATERNITÀ SURROGATA TRA BIOETICA E BIODIRITTO

(estratto da Paradoxa 3/2017)

Lo scorso 23 febbraio 2017, con la storica ordinanza della Corte di Appello di Trento, è stata riconosciuta ad una coppia omosessuale la possibilità di essere considerati padri di due gemelli nati da maternità surrogata in Canada riconoscendone, per la prima volta in Italia, la genitorialità congiunta includendo, quindi, anche quello dei due che non aveva legami biologici con il bambino.
A distanza di oramai quasi trent’anni dal primo caso di maternità surrogata discusso in Italia nel 1989 e noto come ‘caso Valassina’, questo appena descritto è soltanto l’ultimo dei casi variegati di surrogacy, tema delicato e tanto discusso al giorno d’oggi, in cui si stanno imbattendo studiosi di ogni branca sempre più di frequente.
Il presente lavoro si prefigge proprio di condurre una riflessione su siffatte pratiche di maternità surrogata evidentemente sconosciute al nostro ordinamento per i motivi che si illustreranno nel corso dell’esposizione; in particolare si indagherà sulla natura e liceità degli accordi che stanno alla base di tali procedure, sulla conformazione e sui limiti dell’autonomia privata in simili vicende dove grande rilievo assume la portata vincolante del principio del the best interest of the child, a cui sempre dovrebbe tendere la concreta valutazione operata dagli esperti del campo nel caso che si ritrovano, di volta in volta, ad esaminare.
Il fenomeno della maternità surrogata si pone all’interno della dibattuta questione della procreazione medicalmente assistita le cui tecniche vengono utilizzate anche per realizzare le diverse ipotesi di surrogazione materna cd. gestazionale. In particolare, con l’espressione «procreazione medicalmente assistita» (PMA), la legge 19 febbraio 2004 n. 40, nota come «legge 40» si riferisce a quel fenomeno comunemente conosciuto con il nome di ‘fecondazione artificiale’ e cioè come l’insieme delle tecniche mediche che consentono di dar luogo al concepimento di un essere umano senza la unione fisica di un uomo e di una donna, utilizzando procedure artificiali intracorporee in vivo o extracorporee in vitro o in provetta e con l’impiego di gameti appartenenti alla stessa coppia richiedente la tecnica (fecondazione omologa) oppure provenienti in tutto o in parte da donatori esterni (fecondazione eterologa). Le tecniche di fecondazione assistita oggi utilizzabili sono molto numerose; è possibile distinguerle in tecniche di «procreazione medicalmente assistita», quando con esse si favorisce solamente la naturale potenzialità riproduttiva della coppia, che presenta quindi una fertilità spontanea anche se ridotta, e le cd. tecniche di «riproduzione artificiale», quando invece si privilegia una sostituzione della tecnica alle fasi della fecondazione umana che non possono essere realizzate naturalmente.
Il fenomeno in esame vanta origini antiche: basti pensare alla vicenda biblica di Sara, moglie di Abramo, che essendo impossibilitata a procreare per ragioni di età, chiede alla schiava Agardi di unirsi al marito allo scopo di assicurarsi una discendenza; ed ancora, già nell’antica Roma era diffusa la pratica del ventrem locare, per cui un uomo cedeva la propria moglie ad un amico, sposato con una donna non fertile, per poi riprenderla subito dopo il parto come la famosa vicenda di Catone l’Uticense che concede la moglie Marzia all’amico Ortensio Ortalo, affinchè anche quest’ultimo potesse assicurarsi un figlio.
Nello specifico, si ha maternità surrogata quando una donna, dietro corrispettivo o a titolo gratuito, mette a disposizione il proprio utero per una coppia che non può avere figli a causa della impossibilità fisica della donna della coppia stessa di portare a termine una gravidanza, e che si impegna a farsi fecondare artificialmente con il seme dell’uomo della coppia o di un donatore esterno ad essa, a portare a termine la gravidanza ed infine a consegnare ai committenti il figlio così concepito.
La maternità surrogata va distinta dall’affitto dell’utero, altra pratica spesso assimilata o confusa con la prima ma che, in realtà, rappresenta una tipologia completamente diversa di portare a termine la gravidanza per conto di altri; con l’affitto dell’utero, infatti, si fa riferimento alla pratica con cui la donna ‘commissionata’ dalla coppia si limita a portare avanti la gravidanza con impiego di materiale genetico che risulta interamente proveniente dagli stessi committenti o eventualmente da altri donatori.
In Italia tutto quanto sopra descritto è vietato dalla Legge 40/2004, che disciplina la procreazione medicalmente assistita, perché gli accordi che ne derivano sono considerati lesivi di principi fondamentali quali la dignità, la personalità e la integrità psico-fisica della donna, nonché degli interessi dei minori. Altri Paesi in cui qualsiasi forma di maternità surrogata è vietata per legge sono la Bulgaria, la Germania, la Francia, Malta, la Svizzera, la Norvegia, la Svezia, l’Islanda, l’Estonia, la Moldova, la Turchia, l’Arabia Saudita, il Pakistan, la Cina, il Giappone, alcuni Stati degli USA (Arizona, Michigan, Indiana, North Dakota).
La maternità surrogata è una pratica assolutamente legale in alcuni Paesi dove con la madre surrogata è normalmente concluso un contratto con cui la donna, in cambio di pagamento di una somma di danaro o anche a titolo gratuito, si impegna a portare avanti la gravidanza e a non riconoscere il nascituro. Al momento del parto, il bambino viene immediatamente consegnato alla madre committente ed è rilasciato dalle competenti autorità il certificato di nascita che attesta che i genitori sono i due soggetti formante la coppia. In Italia tale pratica è vietata dalla Legge 19 febbraio 2004 n. 40 che, tuttavia, pur ponendo un divieto assoluto alla maternità surrogata, non disciplina i casi in cui vi siano bambini ormai nati e voluti dalla coppia committente.
Un tentativo di apertura a tali pratiche si è avuto nel 2000 con l’ordinanza del Tribunale di Roma in cui veniva riconosciuta la meritevolezza del desiderio della coppia di diventare genitori, che veniva considerata espressione del più generale diritto alla procreazione e che giustificava, quindi, il ricorso da parte della coppia a tutti i mezzi offerti dal progresso scientifico atti a soddisfare la loro aspirazione; il tutto come espressione di una piena libertà di autodeterminazione e libertà positiva dell’individuo di decidere, quindi, in merito alla dimensione della propria famiglia. La vicenda esaminata dal Tribunale di Roma aveva ad oggetto un accordo di utero in affitto in cui il ginecologo, che aveva inizialmente proceduto alla crioconservazione degli embrioni della coppia feconda e desiderosa di avere un figlio e che, agli inizi del 1995, si era impegnato contrattualmente con la stessa ad eseguire l’impianto una volta trovata una donna disponibile a ‘locare’ il proprio utero, rifiutava in seguito di adempiere la prestazione contrattuale affermando che si sentiva vincolato dal Codice Deontologico entrato in vigore il 25 giugno 1995 che all’art. 41 vieta espressamente l’accesso alle pratiche di maternità surrogata. La coppia, quindi, ricorreva al Tribunale di Roma chiedendo un provvedimento diretto ad autorizzare il medico ad eseguire l’impianto e ad adempiere così l’obbligazione assunta avente ad oggetto il trasferimento degli embrioni crioconservati nell’utero della donna che si era resa disponibile ad ‘accoglierli’.
Ma tale orientamento di apertura veniva subito severamente stroncato in virtù del tradizionale principio in base al quale la maternità è collegata al parto e di conseguenza il fatto di attribuire consapevolmente la maternità del neonato ad una determinata donna diversa da colei che lo ha partorito costituisce alterazione di stato. Pertanto, la madre surrogata che adempia l’accordo e si presti a garantire la consegna del bambino e la rinuncia al riconoscimento del rapporto di filiazione, potrebbe essere sanzionata penalmente ai sensi e per gli effetti del su citato art. 567 c.p.. Tuttavia, l’assoluto divieto posto dalla citata Legge 40 e la crescente diffusione delle problematiche relative alla sterilità e alla infertilità di coppia, sta spingendo sempre più soggetti a cercare soluzioni alternative all’estero dove tali pratiche di surrogazione di maternità sono considerate legali ed eseguite ordinariamente. Si parla in questi casi di accordi di maternità surrogata transfrontaliera in cui la madre surrogata ed i genitori committenti sono di Paesi diversi. Alcuni Paesi, come ad esempio Canada, Danimarca, Ungheria, Irlanda ne proibiscono soltanto la forma commerciale, ammettendone quella ‘altruistica’ gestita da agenzie specializzate che prevedono un rimborso spese per le madri surrogate oltre a tutti gli oneri dovuti alla pratica. In altri Paesi, come la California, la Georgia e l’Ucraina, invece, sono permesse entrambe le forme.
Proprio a tal riguardo, va osservato che la Legge 40, pur vietando tali pratiche non disciplina i casi in cui vi siano bambini oramai nati e voluti dalle coppie italiane; la Conferenza dell’Aja di diritto internazionale privato del 2012 nel A Preliminary Report on the issues Arising from International Surrogacy Arrangements ha documentato un incremento notevole nella pratica della surrogacy evidenziando che, a fronte degli evidenti fattori che denotano questa crescente diffusione del fenomeno, non esistono ad oggi meccanismi di rendicontazione formali perché non sempre i dati sono disponibili e soprattutto è difficile raccogliere dati accurati e significativi sulla diffusione di tale tecnica in quei Paesi, tra cui l’Italia, dove essa è vietata e penalmente sanzionata. Dunque, risulta evidentemente oggi impossibile indicare una tendenza giuridica specifica a livello UE sullo status dei genitori legali e dei minori coinvolti da tali pratiche che risultano, quindi, in espansione ma fuori controllo, a dispetto di quanto invocato dal forte appello calato nella Carta di Parigi, firmata il 2 febbraio 2016 nella sede della Assemblea Nazionale di Parigi per l’abolizione universale della maternità surrogata, ritenuta una pratica ingiusta e lesiva dai molti rappresentanti del mondo politico, dell’associazionismo e della comunità scientifica europea che vi hanno preso parte denunciando «l’utilisation des ètres humains dont la valeur intrinsèque et la dignité, sont éliminées au profit d’unevaleur d’usage ou d’une valeur d’échange».
Una attenta riflessione da più fronti si sta avendo sull’importante e delicato ruolo che le nuove biotecnologie hanno assunto in materia di procreazione; se da un lato, infatti, le moderne biotecnologie consentono ad una coppia eterosessuale di realizzare il desiderio di genitorialità ostacolata da cause di infertilità o di sterilità, dall’altro permettono di superare i limiti biologici esistenti per coppie dello stesso sesso o a singles che desiderino accedere alla maternità e/o alla paternità.
Tante sono le questioni di natura biomedica e più in generale di natura bioetica sul punto; M. Aramini, nella sua Introduzione alla bioetica afferma che «nel fenomeno della gravidanza si verifica un intensissimo scambio tra la madre ed il bambino […] se, come avviene per contratto nella maternità surrogata, il figlio viene ceduto dopo il parto, si infligge al bambino una grave ferita nella sua vita relazionale»; ed ancora D. Callahan in Etica e medicina riproduttiva in Questioni di bioetica che si/ci chiede: «può essere accettabile una ricompensa nel caso della maternità surrogata? […] È lecito che le donne siano disposte a prestare l’uso del proprio utero come madri surrogate?».
Il problema posto dagli specialisti del settore e non solo è quale etica porre ai singoli casi che la scienza moderna propone, soprattutto quella riproduttiva; difatti, il ricorso alle tecniche di PMA, se da un lato consente di superare eventuali limitate o ridotte capacità generative, dall’altro produce una profonda modificazione della cultura umana consentendo all’uomo di manipolare e controllare anche la sfera riproduttiva attraverso fecondazioni, clonazione di cellule umane, manipolazioni genetiche, e così via; per dirla con le parole di H. Jonas, «l’uomo stesso è diventato uno degli oggetti della tecnologia. L’Homo faber si volge a se stesso ed è pronto a trasformarsi nell’artefice di tutto il resto». D’altro canto, l’enorme potenziale scientifico si collega alla odierna forte tendenza, soprattutto delle società occidentali, di ricerca della prole, della procreazione anche a costo di superare i limiti biologici – ad esempio la infertilità – e realizzare così il proprio desiderio prioritario di avere con i figli quanto meno un legame genetico. Ciò spiega come mai si tenda a servirsi comunque più dei ritrovati scientifici e tecnologici offerti oggi dalla biomedicina che dei tradizionali canali adottivi.
Ma quali sono, nello specifico, le questioni bioetiche che si pongono sulla maternità surrogata? Abbiamo innanzi precisato che tale pratica consiste nel mettere a disposizione parti del proprio corpo per consentire a terzi di vedere realizzato il proprio desiderio di procreazione. La cd. madre surrogante cede il proprio ovocita o il proprio utero per portare a termine una gravidanza, rinunciare ad ogni pretesa sul bambino che nascerà e cederlo alla coppia committente. Dunque, un bambino viene chiamato ad esistenza per soddisfare l’interesse di più persone, diverse ma cooperanti, di cui i due committenti vogliono ottenere a tutti i costi un figlio tramite la biotecnologia e gli altri vogliono trarre profitto attraverso il proprio corpo. Si pensi, poi, ai casi non esigui di coppie che non sono affette da ‘malattie riproduttive’, ma che comunque ricorrono alla tecnologia riproduttiva semplicemente perché non vogliono sacrificare la carriera oppure perché desiderano ‘programmare’ il figlio. Come ben osservato da A. Pizzo in Una questione bioetica: la maternità surrogata, «la biomedicina, più che curare malattie, finisce col curare i desideri dei futuri genitori che desiderano un figlio quando dicono loro, come dicono loro, con le caratteristiche che vogliono loro». Ciò delineato, certamente la prima questione bioetica che si pone è la seguente: il proprio corpo è di nostra proprietà? Ne possiamo disporre senza limiti? Ed ancora, l’embrione che viene prodotto artificialmente attraverso le sopra descritte tecniche è un essere vivente? È una persona? E se persona, dovrebbe essere preso in considerazione quello che potrebbe essere il suo presumibile desiderio di nascere o meno da una madre soltanto temporanea? Quindi questo embrione ha diritti, doveri, è meritevole di tutela? Comunque persona o meno, certo ontologicamente l’embrione è ed esiste! Per non parlare degli ulteriori problemi che si pongono per gli embrioni soprannumerari vitali o non più vitali crioconservati nei vari laboratori, e così via.
Il Comitato Nazionale per la Bioetica «emette una condanna inappellabile» sulla maternità surrogata partendo dal presupposto fondamentale che al minore vadano assicurate certezza e stabilità a tutela del suo «prevalente interesse» che va sempre garantito insieme alla dignità e soggettività delle donne coinvolte che non devono essere considerate «corpi muti, oggetto di prescrizioni, a partorire o non partorire, secondo volontà altre da loro». In particolare, il 18 marzo 2016 il Comitato Nazionale per la Bioetica, bocciando duramente la mercificazione del corpo umano, ha approvato una mozione sulla maternità surrogata a titolo oneroso denunciando che «la maternità surrogata è un contratto lesivo della dignità della donna e del figlio sottoposto come un oggetto a un atto di cessione» ritenendo «l’ipotesi di commercializzazione e di sfruttamento del corpo della donna nelle sue capacità riproduttive, sotto qualsiasi forma di pagamento, esplicita o surrettizia, in netto contrasto con i principi bioetici fondamentali».
La situazione nazionale descritta non è poi tanto diversa da quanto si verifica a livello internazionale dove viene fermamente condannata, a più riprese, la maternità surrogata; si pensi alla dichiarazione del luglio 2012 del Parlamento Europeo dal titolo Surrogate motherhood in cui si afferma che «la surrogazione è incompatibile con la dignità delle donne e dei fanciulli e costituisce violazione dei loro diritti fondamentali».
E così, l’avanzamento della scienza medica e delle nuove biotecnologie riproduttive, ci fa assistere, giorno dopo giorno, a nuove ipotesi procreative, al conseguente sviluppo di nuovi modelli familiari e parentali e al sorgere di nuovi problemi di tutela dei diritti della persona, in tempi così rapidi da rendere spesso difficile, anche al più attento studioso, una profonda e meditata riflessione su questi moderni temi che sia altrettanto veloce e che rischia, quindi, spesso di non risultare al passo con i tempi in cui è ormai possibile parlare di una riproduzione senza sessualità diversamente dal passato in cui esisteva una sessualità senza riproduzione diffusasi dopo gli anni ’70 con le tecniche contraccettive e con la pratica dell’interruzione della gravidanza e contrariamente al noto brocardo «di mamma ce n’è una sola», oggi non possiamo più essere sicuri di quante figure genitoriali entrino in gioco all’interno di un processo procreativo. Così, nell’aumentare le possibilità riproduttive, la tecnica moltiplica le figure genitoriali e come prontamente osservato da M.R. Marella in Riproduzione assistita e modelli familiari: «ci troviamo oggi di fronte ad un assortimento di situazioni genitoriali prima impensabili: si va dalla donna, sposata o non sposata, fecondata con seme di un donatore, con o senza il consenso del partner; al figlio che non è il prodotto biologico dei genitori sociali, ma di uno soltanto, ovvero di nessuno dei due, essendo stato concepito grazie alla donazione tanto di ovocita che di seme e magari all’impianto nell’utero di una madre surrogata». Tutte le su descritte situazioni eticamente sensibili si prestano certamente a diventare oggetto di volontà e di autodeterminazione delle persone, di contrattualizzazione delle relazioni familiari e delle scelte procreative; si tratta di accordi liberamente stipulati dalle parti al fine di soddisfare il desiderio di genitorialità di uomini e donne e di regolamentare i rapporti fra colei che si offre di svolgere il ruolo di gestante ed il committente o i committenti a seconda delle molteplici situazioni realizzabili a tal punto da aver orientato gli stessi studiosi e pratici della materia a spostare l’attenzione sul cd. best child interest, ponendo così al centro della risoluzione del caso concreto sempre il perseguimento della protezione del minore, anche prescindendo, quando necessario, dalla volontà degli adulti coinvolti.
In particolare, l’Italia proibisce duramente la maternità surrogata considerandone nulli i relativi accordi e sanzionando questi ultimi anche penalmente ai sensi dell’art. 12 della Legge 40; ma il divieto viene comunque aggirato attraverso il fenomeno del cd. turismo procreativo che ha dato vita al problema circa la validità in Italia degli accordi di surrogazione di maternità, che vengono regolarmente conclusi in Stati esteri dove sono consentiti, ed in particolare rispetto alla tutela dei minori coinvolti che continuano ad esserci e a nascere attraverso queste tecniche, indipendentemente dalla prescritta nullità dei relativi accordi e delle severe sanzioni penali che ne conseguono nel caso di violazione della legge in materia. Tutto quanto sopra descritto porta evidentemente a formulare il seguente quesito sostanziale: chi dovrà essere considerata la madre legale del nato da maternità surrogata laddove attualmente si assiste alla presenza di tre figure materne ‘parziali’, ognuna col proprio ruolo all’interno della situazione che si viene a creare e che si combineranno diversamente a seconda della tecnica di surrogazione di maternità prescelta? Precisamente avremo la madre putativa o madre sociale che ha la volontà di mettere al mondo un bambino, la madre genetica o madre biologica che apporta il materiale genetico e la madre naturale o gestazionale che porterà avanti la gravidanza e partorirà. Il risultato di tutto ciò è una evidente rottura della struttura classica della identità materna e conseguentemente di quella del figlio che prima o poi si porrà il problema di quale sia la figura materna da prendere in riferimento tra le tante coinvolte nel processo riproduttivo; il provvedimento del Tribunale di Roma che, rifacendosi al parere del Comitato Nazionale per la Bioetica dal titolo Considerazioni bioetiche sullo scambio involontario di embrioni, la definisce «figura di una madre genetica ma non gestante […] quasi una paternità femminile che sembra contrastare con le stabili linee della concezione dei rapporti familiari e della procreazione» proprio perché, per quanto rilevante, la gestazione non rappresenta tuttavia l’elemento decisivo per la costruzione del legame genitoriale.
La posizione degli studiosi tradizionali ed assolutamente condivisibile ritiene prevalente la figura della madre naturale sulle altre sul presupposto che è il parto che determina la maternità naturale e che, quindi, è la gestazione che crea il materiale rapporto materno che accoglie e nutre l’essere umano; la madre genetica avrà, quindi, un titolo soltanto residuale nei confronti del nato che potrà far valere qualora la madre naturale rifiutasse di riconoscere il bambino.
Tale orientamento è stato contestato e considerato anacronistico da chi lo ritiene legato ad un’epoca in cui era inimmaginabile l’esistenza contemporanea di una madre sociale, una genetica ed una uterina. Del resto, in alcuni Paesi si è cominciata a sperimentare una sorta di uteri artificiali per lo sviluppo dell’embrione rendendo possibile che una nascita avvenga a prescindere da una madre gestante.
Ma cosa accade nell’ipotesi in cui si faccia ricorso alla tecnica di maternità surrogata all’estero e si chieda in Italia la trascrizione dell’atto di nascita che riconosce la maternità della donna della coppia committente? In questo caso possono verificarsi due ipotesi: quella in cui la coppia committente apporti un contributo biologico minimo nella procedura di maternità surrogata prescelta; e quella in cui i genitori committenti ricorrano esclusivamente a materiale genetico estraneo alla coppia.. Quanto alla prima ipotesi descritta è quanto accade nel Regno Unito, in Belgio, nei Paesi Bassi ed in Danimarca; non assume, invece, alcuna importanza la relazione genetica col nascituro in altri Paesi, come ad esempio in Russia, Bielorussia, Ucraina, India, dove la maternità surrogata è legale anche in forma commerciale.
Quanto alla seconda ipotesi riportata, ben denuncia L. Gatt nel Il problema dei minori senza identità genetica nei (vecchi e) nuovi modelli di famiglia: il conflitto tra ordine pubblico interno e cd. ordine pubblico internazionale, in cui l’autrice sottolinea quanto i casi di minori senza identità siano aumentati a seguito della diffusione delle tecniche di PMA e/o di maternità surrogata.
Nel primo caso si preferisce riconoscere la genitorialità alla madre putativa sul presupposto che il best interest of the child deve costituire sempre il parametro di valutazione della contrarietà o meno all’ordine pubblico internazionale secondo quanto è del resto ribadito anche dall’Unione Europea nell’ambito del riconoscimento delle sentenze straniere nella materia dei rapporti tra i genitori e i figli; nel secondo caso, invece, i giudici hanno sino ad oggi ritenuto opportuno considerare il minore in stato di abbandono e procedere quindi alla adozione dello stesso tenuto conto della pacifica circostanza per cui non essendoci contributo biologico minimo, i committenti non possono essere considerati in alcun modo genitori del nato ed il best interest of child richiede, in tal caso, che lo stesso sia considerato privo di assistenza morale e materiale da parte dei genitori e dei parenti tenuti a provvedervi, quindi in stato di abbandono che dovrà essere accertato dai competenti organi ai fini della dichiarazione di adottabilità del bambino.
Da tutto quanto sopra esposto emerge chiaramente che il problema su cui concentrarsi e da risolvere è quello di garantire ogni volta il best interest of the child, a prescindere dalla meritevolezza o meno degli accordi di surrogazione di maternità.
Si è notato che in materia sussiste un atteggiamento schizofrenico di certi studiosi in quanto se da un lato non contemplano la scelta autodeterminativa delle coppie di ricorrere alla maternità surrogata dall’altro giustificano il fenomeno affermando il diritto di diventare genitori.
Del resto, proprio secondo alcuni, la nozione di responsabilità genitoriale, di nuova introduzione nel nostro codice civile a seguito della riforma della filiazione, annullerebbe la distanza creata spesso proprio tra l’autodeterminazione delle coppie sulle scelte procreative e il best interest of the child in quanto il rapporto di genitorialità, prima ancora di essere un legame biologico è un rapporto di responsabilità che, quindi, prescinderebbe dal legame di sangue, rilevando in tal caso la ferma volontà di diventare genitori responsabili per l’educazione, il mantenimento e l’istruzione di un bambino nato e voluto anche con l’ausilio di materiale genetico estraneo alla coppia. Ma è doveroso chiedersi, a tal proposito, come suggerito da L. Gatt nello scritto innanzi menzionato, se il rapporto di responsabilità genitoriale include anche la negazione della identità genetica del minore, così come affermata dall’ordine pubblico internazionale, che verrebbe così sacrificata «da esigenze di tutt’altro genere, facenti capo a tutt’altri soggetti che – dolorosamente – sono proprio coloro che proclamano di volersene prendere cura».
Il divieto di maternità surrogata posto in Italia con le relative pesanti sanzioni previste nel caso di infrazione allo stesso non hanno scoraggiato coloro che, pur di avere un figlio e non volendo ricorrere all’istituto della adozione, decidono di ricorrere alla maternità surrogata in quei Paesi dove la stessa è ammessa. Come già innanzi accennato, una tale situazione comporta due ordini di problemi: il primo attiene alla meritevolezza degli accordi di maternità surrogata che verranno stipulati con conseguente regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali tra le parti dell’accordo in caso di inadempimento; il secondo attiene, invece, alla attribuzione della maternità legale e della connessa disciplina dello status filiationis.
È il caso di menzionare, inoltre, che nel dibattito femminista il fenomeno della maternità surrogata forma oggetto di due antitetiche interpretazioni: l’una considera la surrogazione come lo strumento per la liberazione delle donne dal ‘fardello’ della maternità biologi ca e quindi, una forma di emancipazione femminile, a riprova del fatto che le donne sono eticamente responsabili, capaci di governare la propria sensibilità emotiva e l’altra interpretazione che, invece, assimila la donazione e/o cessione di utero ad una forma di prostituzione e di schiavitù, denunciando il rischio che una tale pratica possa comportare una selezione delle madri surrogate dalle finalità eugenetiche.
Da tutto quanto esaminato emerge l’evidente disomogeneità delle soluzioni fornite da studiosi e pratici della materia ma anche dai diversi ordinamenti stranieri riferiti; il che incentiva di certo al cd. turismo procreativo (cross border reproductive care) nelle modalità innanzi riportate e rende il divieto posto dalla legge 40 assolutamente debole, in quanto i cittadini sono di fatto legittimati a recarsi all’estero a ‘fabbricare bambini’ secondo la tradizionale dialettica che vede il consumatore da un lato ed il produttore dall’altro i quali vanno rispettivamente individuati nei genitori committenti e nella madre surrogata.
Di conseguenza, per quanto, a mio avviso, sia assolutamente condannabile il fenomeno in termini etici, ci si augura che il legislatore intervenga quanto prima nella materia per costruire un sistema chiaro di regole in grado di salvaguardare in concreto il best interest of the child di cui, ad oggi, non si è ancora ben capita la portata ed il significato, evitando così di lasciare agli interpreti il compito di trovare, di volta in volta, una soluzione adeguata a questioni che invece necessitano di una omogeneità legislativa in grado di attribuire uno status certo a chi è nato, seppure attraverso accordi illeciti. La maternità surrogata costituisce, infatti, un ‘non luogo normativo’ che purtroppo tale sembra destinato a restare ancora a lungo tenuto conto anche dell’assenza di contatto tra i vari Paesi europei in cui oramai il fenomeno è dilagante seppure spesso sommerso. Tale assenza normativa è di ostacolo anche alla soluzione delle problematiche scaturenti dagli accordi di surrogazione o delle problematiche che possono insorgere a seguito del parto quali, ad esempio, la mancata consegna del bambino, il rifiuto opposto dai genitori committenti a ritirare il neonato in presenza di patologie o malformazioni che affliggono lo stesso, l’eventuale decesso della madre committente, il mancato riconoscimento della documentazione estera attestante il rapporto di filiazione e la conseguente pronuncia di stato di abbandono e dichiarazione di adottabilità concernente il minore, e così via. Si può chiaramente parlare di incapacità e forse anche di resistenze dimostrate dalle istituzioni nel disciplinare la materia in esame che si preferisce affidare di volta in volta alla giurisprudenza per la risoluzione di vicende che faticano a trovare una disciplina uniforme ed organica.
Riaffiora, allora, il grande interrogativo della bioetica sempre tempestivo quando il progresso scientifico supera i limiti di ciò che è considerato naturale: «tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente accettabile, socialmente ammissibile e giuridicamente lecito?».

I commenti sono chiusi.