Maurizio Serio – ABBANDONARE IL CORPORATIVISMO PER UNA NUOVA RAPPRESENTANZA

(estratto da Paradoxa 2/2013)

  1. La questione della rappresentanza dei cattolici è da non pochi mesi al centro del dibattito culturale e mediatico, ammesso che un centro sia rinvenibile in una situazione assolutamente eccentrica quale è quella che sta attraversando la politica italiana. Lo stato di eccezione che accompagna la transizione dalla Seconda Repubblica a quella che al momento sembra essere una Neverland più che una tappa del processo di rinnovamento del sistema sembra giustificare e allo stesso tempo confinare in un limbo di irresponsabilità tutte le proposte che si vanno avanzando tra l’opinione pubblica non meno che tra i corridoi del Palazzo. Per dare concretezza al problema, sarà forse utile ripensare il nesso tra la cultura politica dei cattolici e gli assunti programmatici necessari a dare risposte all’elettorato, al fine di riconfiguare un corretto rapporto tra offerta e domanda politica, falsato dall’ortoprassi tecnocratica della quotidianità presente e dalla grande paura del déjà vu degli autoritarismi nell’immediato fu
  2. A nostro avviso è evidente lo svuotamento delle due grandi forme di rappresentanza della democrazia moderna, quella degli interessi e quella dei valori. La stagione della rappresentanza degli interessi ha coinciso con la stabilizzazione del compromesso costituzionale, che ha dato luogo alla democrazia consociativa di centro-sinistra al governo sino agli anni Novanta. Essa ha operato una selezione delle componenti sociali ammesse a partecipare alla distribuzione delle risorse (politiche, economiche, simboliche) e non ha potuto reggere all’urto di quanti si trovavano esclusi da questa spartizione né al collasso del sistema causato dall’esaurimento delle risorse stesse. (Di fatto, è stato il riproporsi di una tipica dinamica d’ancien régime, con altrettanto tipico epilogo rivoluzionario, ovvero Mani Pulite). È per questo che chi scrive non concorda con quanti invocano una leadership sintetica delle capacità emerse in questi anni dalla società civile, quasi che fossero legittimate in quanto tali ad assumere ruoli di direzione anche nella vita politica; inoltre, non infrequentemente le scopriamo contigue a gruppi d’interesse, nel mentre in cui evocano come negromanti entità metafisiche (il Bene Comune) con cui schermirsi nel perseguimento dei propri (legittimi) fini istituzionali. Sarebbe sbagliato vedere tra queste fila le esperienze necessarie a dare slancio nuovo al Paese. Siamo giunti poi alla breve età della rappresentanza dei valori, che ha coinciso con la parabola del berlusconismo, anche se quest’ultimo al momento pare sopravviverle. In questa congiuntura abbiamo assistito alla polarizzazione dei valori, senza capire invece che essi simul stabunt, simul cadent: libertà vs. uguaglianza, sussidiarietà vs. solidarietà, diritti vs. giustizia, individualità vs. comunità, autonomia vs. responsabilità. Ciò ha portato all’erosione delle basi sociali della nazione, consegnandoci a un conflitto permanente e difficile da disinnescare, praticamente su ogni questione opinabile. In entrambi i casi, a prevalere è stata una visione corporata della rappresentanza, che inquadrava la società in orticelli o trincee, oscurandone la naturale complessità, standardizzando i canali di partecipazione e agitando lo spettro paralizzante della sana conflittualità politica prima come elemento di disturbo del sistema, poi come un alibi alle incapacità di governo. Occorre allora abbandonare definitivamente la zavorra del corporativismo, accolto a lungo con compiacenza anche nel pensiero sociale cattolico, menando l’ingenuo vanto di un fallace distinguo sia dalle declinazioni socialfasciste del Ventennio che da quelle consociative degli anni Settanta. Cosa possiamo allora auspicare per il futuro prossimo? La fase che ci attende potrà essere quella della rappresentanza delle opzioni temporali (preferenze), contingenti, storicamente determinate, perché per difendere i valori non negoziabili non c’è bisogno di un partito ma di coscienze ben formate mentre per difendere degli interessi non si può brandire il distintivo della religione come alibi. Le opzioni vanno intese come stili di vita, nel senso che ciascuno di noi può pure condividere con altri dei valori o degli interessi specifici (es. di classe o di comunità territoriale) senza per questo condurre il loro medesimo stile di vita o effettuare nel quotidiano identiche scelte. Anzi, si possono preferire le medesime opzioni temporali di individui che sono anche molto distanti da noi dal punto di vista dell’orientamento valoriale o che assumono posizioni di difesa d’interessi finanche confliggenti con i nostri. In tal modo, l’opzione preferenziale diviene un concetto chiave nella vita politica della dopomodernità, che ha visto inaridirsi ed esaurirsi le grandi narrazioni ideologiche, di interessi e di valori.
  1. È su questo piano a mio parere che può essere tradotta nel discorso politologico quella fecondissima intuizione di Pierpaolo Donati, che ha dato luogo ad una messe imponente di studi teorici ed empirici sotto il tag della “sociologia relazionale” (Cfr. in particolare P. Donati, Teoria relazionale della società, Franco Angeli, Milano 1991). Si consideri infatti che è possibile collegare a ciascun tipo di rappresentanza una forma di relazione specifica, che ha riflessi sia sul lato sostanziale sia sulle forme procedurali del sistema democratico. A una rappresentanza degli interessi corrisponderà un tipo di relazione utilitarista tra detentori dell’offerta e sostenitori della domanda politica; una rappresentanza dei valori postulerà una relazione di tipo identitario, esclusivo ed escludente, volta a radicalizzare le culture politiche; infine, una rappresentanza delle opzioni esprimerà un modalità di relazione che è quella “politica” per eccellenza, in quanto orientata a connettere le innumerevoli situazioni di contingenza che emergono all’interno dei “mondi vitali” in cui la persona si trova ad essere coinvolta, con una modalità di decisione politica che non intende disciplinarle una volta per tutte, ma è aperta a riconoscerne le specificità e a fare da sponda in un contesto naturalmente poliarchico quale è quello delle società complesse. Affinché tutto ciò non appaia un mero esercizio di astrazione, dobbiamo essere in grado di disegnare le ricadute di una simile impostazione sulla gestione della realtà politica effettuale; in altre parole, occorre consumare il passaggio da una cultura politica a una cultura di governo. Ora, il liberalismo delle regole propugnato dai grandi autori ordoliberali come Röpke –e che costituisce la Weltanschauung del Centro studi Tocqueville-Acton che in Italia si occupa di riflettere criticamente su questi temi –postulava una prova di “conformità” delle politiche economiche imperniata sulla non violazione del meccanismo di formazione dei prezzi. Analogamente, anche nella scienza politica possiamo formulare un principio di conformità: saranno conformi quelle policies che non alterano la natura della rappresentanza delle opzioni preferenziali, ovvero della relazione fra offerta e domanda politica secondo l’ordine degli stili di vita. Una tale impostazione implica l’esercizio del comando politico non in forma coercitiva (imperium) quanto piuttosto ausiliaria (subsidium) rispetto alla libertà dei cittadini, uti singuli e come associati. (Per rispondere alla recente domanda del Censis, ecco dove si trova la sovranità nel ventunesimo secolo: nel servizio, non nel comando; cfr. Censis, Dove sta oggi la sovranità, 6 giugno 2012, ora in La crisi della sovranità. Un mese di sociale 2012, Franco Angeli, Milano 2012).Rifacendoci alla classica distinzione di Lowi delle quattro arene delle politiche pubbliche (cfr. T.J. Lowi, Four Systems of Policy, Politics, and Choice, 1972), possiamo così collegare a ciascun tipo di rappresentanza delle policies di riferimento: all’interno di ogni arena, ho scelto di individuare delle issues specifiche e molto attuali, che interessano l’elettorato a prescindere dagli orientamenti religiosi, in modo da poter procedere con una comparazione fra alternative equivalenti e conflittuali che potrebbero emergere nel dibattito politico (tab. 1).
    tabella1-serioNe consegue che una politica redistributiva conforme a una rappresentanza per opzioni è ad esempio il “fattore famiglia”, perché esso, come direbbe ancora Donati, “vede” la relazione sottostante al patto familiare e i suoi effetti emergenti (la prole ma anche le ricadute in termini di welfare familiare), laddove un approccio per interessi mira invece a trasferimenti di risorse da un gruppo sociale ad altri (è il caso della patrimoniale o della tassazione sulle rendite), mentre un criterio basato sui valori porta a focalizzarsi su battaglie simboliche, dunque o difficilmente realizzabili (come il quoziente familiare) o con pretese di moralizzazione della vita privata dei cittadini (la tassa sui beni di lusso). A corollario di questo aspetto non si può non notare che una politica fiscale che valorizzi il ruolo della relazione familiare ipso facto postula una serie di provvedimenti e di servizi a sostegno del tasso demografico, non più assimilabili però con le battaglie del passato e con la retorica ad essi corrispondente. Infatti, non si tratta di scegliere o meno di fare figli sulla base di una considerazione di interesse: perché ci servono o ci ostacolano nei nostri progetti di autorealizzazione –la retorica cioè del “popolamento delle colonie” e quella del “corpo è mio e me lo gestisco io”. Neppure è proponibile oggi il dilemma assiologico tra chi vuole fare figli perché è giusto farlo (per convincimenti eteronomi, anche di tipo religioso: Dio o la mia chiesa vogliono così) e tra quanti ritengono invece che sia un torto mettere al mondo della prole in condizioni diffuse di precarietà economica, politica e sociale e soprattutto in una società ritenuta non all’altezza di accoglierli (la retorica del “mondo-che-fa-schifo”). In un’ottica di opzioni temporali contingenti e di stili di vita, l’incremento demografico all’interno della relazione familiare prende il volto della generatività, come valorizzazione massima del legame di comunione d’intenti dei coniugi e come segno di fiducia nei confronti delle istituzioni e dell’ambiente sociale, che da questo orientamento ricevono risorse in forma di beni relazionali e di consolidamento del legame sociale (si vedano a questo proposito i rapporti dell’Osservatorio nazionale sulla famiglia, imperniati sul c.d. family mainstreaming).Ancora, abbiamo vagliato il caso di politiche regolative in ordine all’estensione dell’istituto familiare a forme diverse dall’unione eterossessuale, rilevando che sul piano dei meri interessi assistiamo a una semplificazione del problema, ridotto a una questione di rapporti di forza fra favorevoli e contrari a una revisione della legislazione vigente; mentre nell’ottica valoriale vi sarà chi tenterà di revisionare il dettato delle norme costituzionali e chi invece mirerà a rafforzarne l’interpretazione sinora vigente, entrambi ricorrendo anche alla via giudiziale. Una proposta conforme al rispetto delle opzioni di vita, peraltro avanzata da più parti, faciliterebbe invece il ricorso a strumenti di natura privatistica, in grado di garantire il godimento dei diritti e l’esercizio dei doveri senza per questo stravolgere, con il conferimento di un rilievo pubblicistico, l’impianto della nostro ordinamento.
    In terzo luogo, possiamo considerare policies costituenti sulla forma di Stato e relativealla definizione delle competenze e alla distribuzione dei poteri pubblici sul territorio: anche qui è evidente che in un’ottica di interessi la negoziazione è lasciata al braccio di ferro tra i poteri del centro e quelli delle periferie, senza riguardo verso una prospettiva di stabilità di lungo periodo; allo stesso modo, specie negli ultimi anni, abbiamo visto brandire come una clava il valore dell’interesse nazionale contro le ragioni dell’autodeterminazione delle comunità territoriali in situazioni purmolto differenti (dalla protesta fiscale del Nord all’affaire della TAV, sino alla rivolta dei forconi) ma che avrebbero richiesto tutte un coinvolgimento dell’opinione pubblica e delle istituzioni locali con la presentazione di dati e con una valutazionedegli effetti delle policies proposte, anche per prevenire la formazione di movimenti collettivi antisistema col loro pressing logorante sostenuto dalla pretesa di incarnare i valori autentici del territorio. Anche per questo è stato un grave errore sollevare la questione del federalismo quasi fosse l’ennesima arma ideologica in grado di ristabilire corretti rapporti di forza o di crearne di nuovi. Un federalismo sano, ossia depotenziato della carica eversiva degli orientamenti “di principio”, non può che far leva su concrete attuazioni della sussidiarietà, verticale e orizzontale, chiamando alla gestione e alla implementazione delle politiche necessarie i gruppi coinvolti, che siano organizzati formalmente o meno. Alle istituzioni spetta un ruolo di raccolta e coordinamento che, se ben svolto, non può che sottolineare il carattere di necessità di una cabina di regia pubblica, con positivi riflessi in termini di consenso politico. Infine, arriviamo alle politiche distributive, considerando le issues del comparto dell’istruzione e della formazione delle generazioni più giovani. A lungo, in questa arena si è ricorsi al metodo del bastone e della carota, con la progressiva compressione delle retribuzioni degli insegnanti, ignorandone i proporzionali effetti depressivi dal lato del prestigio sociale, mentre al tempo stesso si giocava la carta di nuove procedure di abilitazione all’insegnamento ben oltre le capacità effettive di assorbimento del settore, ma si consentiva anche alla sistematica sindacalizzazione della scuola quale veicolo di coesione “di classe” sulla base di rivendicazioni comuni e reiterabili ad ogni stagione. Non meno danno ha provocato quell’impostazione che ha contrapposto istruzione pubblica e istruzione privata nella ricerca di risorse economiche o di sgravi fiscali, sulla scorta dei miti dell’istruzione gratuita e della avocazione allo Stato del compito educativo e di quelli, speculari, della superiorità gestionale del privato (a prescindere dai suoi intenti e dal suo modello organizzativo).Con ciò dando luogo a un duplice, pericoloso, effetto distorsivo: la costante minaccia, per l’istruzione pubblica, del venir meno delle condizioni di sussistenza minima del servizio; e il rischio di ghettizzazione, per quella privata, entro i ranghi del diplomificio e della scuola “per ricchi”. E allora qui la soluzione basata sulle preferenze non può che far leva sulla libertà costituzionale di educazione tramite il sostegno sussidiario ad associazioni del privato sociale, religiose e non, e soprattutto a reti di famiglie desiderose di provvedere direttamente al percorso formativo dei propri figli e naturalmente orientate alla riproduzione di beni relazionali. In questa direzione, per esempio, sarebbero provvedimenti conformi il buono scuola e il favor verso forme di homeschooling, perché imperniati sulla libertà di scelta delle famiglie e sulla loro responsabilità nell’implementazione.
  2. Da quanto detto sinora, emerge come la previsione di un orientamento di policy conforme e coerente a questo nuovo tipo di rappresentanza possa aiutarci a indicare quali siano le priorità da affrontare in sede di formulazione dell’offerta politica, che si traduce naturalmente nella presentazione di un programma. Su questo punto, per chi metterà mano alla creazione di un nuovo partito o intenda semplicemente rinnovare quelli esistenti, non sarà facile evitare di oltrepassare la soglia del velleitarismo: siamo un popolo scoraggiato ma assetato di desideri, per giunta perseguiti con la lucidità di chi vaga da anni nel deserto. Vogliamo tutto e subito, come insegna il boom del movimento di Grillo e il riproporsi sotto nuove forme delle utopie dell’estrema sinistra e delle rivendicazioni della destra più Ma è pur vero che i paletti imposti dalla crisi implicano di percorrere una strada a senso unico, che come stazioni di posta conosce solo riforme strutturali, per ripartire subito con altre riforme che sono la naturale traduzione politica di quel linguaggio dell’innovazione che permea la nostra epoca. Invero questo dovrebbe agevolare la discussione e la formazione dell’offerta politica: se i fini sono dati, la scelta ricade sui mezzi più idonei. D’altronde, non sorprenda l’affermazione, questo è un esercizio ideale per chi è aduso a maneggiare la dottrina sociale della Chiesa, ricca di principi e (intenzionalmente) monca di soluzioni. Si tratta insomma di una pratica di libertà, molto opportuna dopo la stagione della supplenza dei vescovi e dell’eterodirezione del laicato (su questo punto, si veda l’analisi di Luca Diotallevi, L’ultima chance, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011). Giustamente si invocano invece da più parti –e con vari gradi di adesione e convinzione – tutele più alte: è il caso del richiamo ai padri del cattolicesimo politico liberale e solidale, Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi. Ebbene, quale programma può desumersi da questa sorta di popolarismo 2.0? Né più né meno del lungimirante “concetto strategico” elaborato da questi Grandi in periodi non meno difficili come furono i due dopoguerra, e imperniato:
    i) sulla collaborazione internazionale come metodo di apertura della ragion politica domestica,
    ii) sulla libertà economica come esercizio virtuoso del risparmio più che del consumo, e
    iii) sulla partecipazione politica che, molto più di quella coesione sociale agognata oggi come remedium concupiscentiae della modernizzazione avanzata, ci restituisce l’immagine della Nazione rappresentata appunto “per opzioni” e non per valori o interessi. Sono tre direttrici che portano lontano dal caos che inghiotte, come il Nulla di Michael Ende, i bisogni e i desideri dell’uomo del nostro tempo, ma neppure contengono un’assurda pretesa ordinatrice dello spazio politico. Implicano il congedo dal monismo –funzionalista, “mercatista” o statalista che sia –come metodo di aggregazione delle risorse e delle potenzialità di paesi e cittadini, per approdare a una dimensione poliarchica e smitizzante della decisione pubblica, che passi inevitabilmente per la formazione civica e, perché no, “spirituale” della classe dirigente, a partire dalle generazioni più giovani. È questa una sfida che forse trascende il corto raggio d’incidenza che siamo portati ad attribuire (per falsa modestia, per comodità o per disincanto) alle nostre capacità d’azione, ma d’altra parte solo gli osservatori più provinciali possono permettersi di non accorgersi che la malattia della politica non è solo (l’ennesimo) problema italiano, ma investe l’ultima certezza indiscutibile, quel percorso di costruzione europea che galleggia tra le lacrime delle manovre economiche e il sangue delle difficili politiche sociali che oggi è chiamato ad implementare ciascun governo del Continente –salvo la Germania, che al di là degli egoismi e della spocchia da primi della classe (e delle responsabilità per i fallimenti altrui) conserva appunto quell’impronta di liberalismo delle regole che ne informa la struttura costituzionale e la vita economica. In definitiva, non lambicchiamoci sull’opportunità o sulla necessità di una nuova formazione politica che realizzi i sogni di una nuova generazione di outsider o riattizzi i nostalgici del bel-tempo-che-fu, ma iniziamo a discutere di opzioni percorribili, facendo nostro l’ammonimento che Joseph Ratzinger ha posto nelle prime pagine della sua Introduzione al cristianesimo (Queriniana, Brescia 2003): «non sono i movimenti di massa a racchiudere in sé promesse per il futuro. Il futuro nasce quando delle persone si incontrano su convinzioni comuni, capaci di dar forma all’esistenza».

 

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