Mario Morcellini – LA SCISSIONE GIOVANI/SOCIETÀ. UNA TERRA DESOLATA

(Estratto da Paradoxa 4/2022)

La completezza resta l’obiettivo della ricerca intellettuale… e quanto più sensibile è l’apprensione dell’incompiuto, tanto più forte è il richiamo della totalità.

Thomas Harrison, L’arte dell’incompiuto

I cambiamenti nella condizione giovanile disegnano una vera e propria cosmologia di novità, al punto che i termini ‘crisi’ e ‘rischio’ sono sovrarappresentati rispetto a quelli di ‘speranza’ e ‘futuro’. Quanto più siamo incerti nel disegnare una nuova cartografia, tanto più ricorriamo a un lessico talora esoterico come quello che fa riferimento a supposti mutamenti antropologici. È complessivamente una concettualizzazione incerta, ma resta vero che la concentrazione di crisi strutturali e culturali che i giovani pagano finisce per aumentare il fossato tra la nostra conoscenza e la messa in scena dei loro comportamenti, quasi sempre collegati a una iperstimolazione da parte della comunicazione soprattutto digitale, che oggi sembra quasi l’unico testamento cui i nuovi venuti si appoggiano.

È ovviamente difficile costruire tipologie narrative di esistenze sempre più complesse e ora scosse dalla doppia emergenza della pandemia e di una guerra insensata. Eppure una situazione così disarticolata apre per definizione ad una visione che promette significative scoperte empiriche e teoriche, a condizione che il nostro sapere sappia seguire con attenzione l’impatto e la profondità dei cambiamenti in corso, di cui sovente ci limitiamo a vedere le storie tese raccontate da una comunicazione troppo spesso superficiale.

La scelta allora è quella di ispirarci ad una visione longitudinale e dunque cumulativa dell’osservazione dei mutamenti, perché solo questa disciplina intellettuale consente davvero di fermare almeno speculativamente la corsa del nuovo. Sono un gesto e uno sguardo che si richiamano al grido del Faust, volto a bloccare l’incessante divenire con la forza delle parole, nel momento in cui si rivolge al tempo sfuggente: «Fermati, attimo, sei così bello».

Lo abbiamo capito meglio durante la pandemia, nel momento stesso in cui coglievamo la percezione che attivare l’arto della conoscenza era un primo modo per frenare la paura e l’angoscia, cominciando dunque a verificare quanto le crisi possano migliorare la nostra riflessività.

Del resto, le emergenze si sono rivelate una chance inattesa per evidenziare bisogni sociali nuovi e irriducibili e, al tempo stesso, uno straordinario strumento di accelerazione dei cambiamenti. Questi presupposti vanno però meglio spiegati, poiché su di loro può poggiare l’avvio di una diversa operazione trasparenza delle nostre società. Sugli effetti della pandemia, infatti, abbiamo molto studiato a livello sia individuale che collettivo. La produzione scientifica che ne è derivata deve ora trasformarsi in un elemento di rafforzamento e raffinamento della conoscenza, nella direzione di assumere decisioni e politiche pubbliche coerenti rispetto ad un’autentica rigenerazione.

Ebbene, è opportuno ribadire che la formula più avanzata, e peraltro tempestiva, di interpretazione dell’impatto del Covid è stata quella di un grande esperimento psicologico e sociale[1]. E se questo è vero, ne discende anche che si tratta del nodo più rilevante che gli studiosi debbono affrontare per il presente/futuro. La circostanza stessa che ad un’emergenza duratura e connotata da tappe e tratti notevoli, abbia fatto seguito la guerra portata dalla Russia in Ucraina rende più forte l’assunto che le crisi provocano cambiamenti nella direzione di una più efficace assunzione di responsabilità individuale e collettiva. È la riprova di quanto il tempo precedente fosse caratterizzato da un’incomprensione radicale sui nodi della società e del disordine internazionale per il quale non mancavano certo indizi e segnali premonitori: in altre parole dobbiamo registrare una qualche stanchezza delle scienze umane, e viene da domandarci da quale distanza ci eravamo abituati a leggere la società, la comunicazione e le trasformazioni intervenute nelle aspettative soggettive e nelle interazioni con gli altri. Riassumendo gli studi condotti sui mutamenti negli stili di comunicazione si può osare un assunto più radicale: le crisi cambiano più rapidamente gli individui rispetto alle risposte istituzionali, persino in un frangente in cui è difficile negare che queste ultime abbiano dato una significativa prova di capacità e rapidità nell’assunzione delle decisioni ritenute strategiche.

È dunque difficile negare che, nell’emergenza, abbiamo vissuto mutamenti rilevanti, sempre ricordando quanto i media studies ci insegnano: se i cittadini cambiano abitudini e scelte di comunicazione, si producono innovazioni anche in campi differenti. Fin qui abbiamo indugiato sulla trasformazione sociale avvenuta già a partire da noi, e che ha comunque bisogno di un lavoro pubblico di presa di coscienza per diventare davvero la pietra angolare di una nuova stagione. Entrando più analiticamente dentro la fisiologia delle novità connesse all’emergenza, gli stessi studiosi che più hanno indugiato sull’analisi degli eventi eccezionali hanno dovuto prendere atto che quanto sapevamo sulle crisi era strutturalmente legato a tempi brevi di rientro nella normalità; esattamente il contrario di quanto abbiamo vissuto e scoperto fronteggiando sia la pandemia sia una guerra che tutto sarà meno che un episodio rapido e circoscritto. L’intelligenza sociale di quanti hanno ben chiaro che il centro di comprensione della modernità consiste, letteralmente, nella rivoluzione permanente di tutto ciò che ‘c’era prima’ può dunque afferrare un aspetto radicalmente diverso con cui il cambiamento si esprime: la sua rapida accelerazione, al punto che esso dovrebbe essere sempre accompagnato da una sottolineatura semantica relativa alla velocità di sostituzione degli scenari.

Messo da parte questo incipit relativo ad un nuovo contesto epistemologico, il cui architrave riposa sull’impatto delle emergenze nella vita e sulla più rapida disponibilità ad accettare i cambiamenti, resta ora da dichiarare aperto un cantiere di riflessione attento a quanto gli studiosi dovranno aggiornare il loro sapere, se vogliono inseguire in diretta i processi di trasformazione.

La presa di coscienza preliminare è che, soprattutto nelle crisi, c’è più bisogno di teoria perché per definizione i mutamenti stressano anche la loro narrazione. Il beneficio che se ne trae è ridurre la complessità del mondo che cambia scegliendo il disordine e la frammentazione. Si impone dunque il bisogno di dare ordine agli eventi e avviare un disegno di ricapitolazione. Ma l’aspirazione alla teoria, da sola, non basta a rendere più intellegibili i tempi in cui ci è dato di vivere; abbiamo bisogno di un servomeccanismo che riduca il luccichio del cambiamento, spesso capace di rendere i ricercatori involontari propagandisti del nuovo. E qui il pensiero evoca immediatamente studiosi abituati ad adottare una mentalità ispirata alle grandi scoperte scientifiche de Les Annales: ponderare attentamente i mutamenti, allora perlopiù configurati sulla lunga durata, alla luce della fulminante espressione braudeliana «per essere, bisogna essere stati» (Braudel 2017). Qui si chiama allora in causa un dispositivo cognitivo utile per rendere i moderni meno esposti alla sopravvalutazione di un diverso ordine sociale, abituandosi ad applicare ad ogni rilevante innovazione un interrogativo che solo l’autoriflessione può far scattare, dedicato ai «processi di sostituzione» (Paradoxa 3/2020). Detto diversamente, cosa cancella o ridimensiona il nuovo assetto, quali dimensioni culturali o addirittura istituzionali impone, senza dichiararle? E dunque cosa perdiamo nell’adottare comportamenti percepiti come moderni, quasi «apparenze di valori» (a suo tempo, Bacone le definì magistralmente idola fori)?

Più che mai dopo la pandemia e la guerra, abbiamo preso atto che il mondo nuovo non è dotato di un libretto d’istruzioni, e soprattutto maschera accuratamente le rottamazioni a cui instancabilmente provvede. Si capisce che le teorie del cambiamento stanno diventando così scompensate al punto di non aiutarci quando l’accelerazione dei processi rende difficile intravvedere (e graduare) i momenti e le dinamiche interne a un nuovo stato di cose. In queste condizioni occorre il coraggio di ammettere che non mancano mai elementi di rimediazione nella nostra cultura tali da ridurre il frastuono dei cambiamenti, rendendo dunque più facili i protocolli di analisi e verbalizzazione degli scostamenti tra il prima e il dopo.

  1. Cosa ci insegnano i Media studies

«La metamorfosi è una modalità di cambiamento della natura dell’esistenza umana. Chiama in causa il nostro modo di essere nel mondo. Ciò che prima veniva escluso a priori, perché totalmente inconcepibile, ora accade» (Cocozza 2021)

Sappiamo dalla letteratura scientifica che studiare la comunicazione presenta il vantaggio inestimabile di accorciare le distanze cognitive con continenti dell’esperienza che si presentano ossessivamente, enfatizzando la novità. Studiare i media è un vero e proprio Breviario per non essere frenati da teorie e concetti vanificati dal ritmo che assume il nuovo e soprattutto la sua rappresentazione pubblica. Se a questo si aggiunge il modello di radicalizzazione dei cambiamenti che il digitale impone, e dunque un ritmo incalzante che il De bello gallico chiamerebbe magnis itineribus (a marce forzate), il discorso diventa più facilmente accettabile e convincente. Il digitale accelera tutto, quasi per definizione, mentre il ‘vecchio’ sistema mediale aveva ancora qualche forma di rispetto per una cadenza meno ravvicinata degli eventi nuovi. E tuttavia bisogna dire che analizzare i media aiuta fino a un certo punto: consente certamente una miglior percezione delle figurazioni sociali leggibili negli immaginari e nelle grandi narrazioni collettivamente condivise, ma non gratifica l’esigenza di interpretare i cambiamenti senza sopravvalutare la dimensione che definiremmo sovrastrutturale tendente a esaurirsi nei soli immaginari.

Stiamo riflettendo su mutamenti che riguardano tutte le dimensioni della vita con cui il soggetto entra via via in contatto, e non solo l’aumentata pressione cognitiva e simbolica che rischia di sovrastarlo. Per questa seconda linea di pensiero occorre scegliere il versante delle persone, e qui si impone la scoperta che sempre i soggetti giovanili si sono prestati ad essere ambasciatori di nuove aspettative sociali e testimonial trasparenti rispetto alla radicalità dei cambiamenti.

Siamo di fronte ad una presa d’atto che sfida vuoti oggettivi ed esitazioni di una buona parte della letteratura di settore da troppo tempo incline al burocratismo dei dati, dimissionaria e rinunciataria, invece, per quanto riguarda la possibilità di cogliere i mutamenti profondi: scrivere di giovani e sui giovani è d’altra parte e da sempre impresa ardua, per il semplice motivo che le nostre retine ‘adultocentriche’ non sono adeguatamente configurate e dunque non sanno molto spesso neppure vedere fenomenologie e cosmologie legate a quell’universo. Se a questo si aggiunge la postura prevalente di un buon numero di studiosi più propensi a individuare, nelle dinamiche dell’evoluzione sociale, la continuità piuttosto che la divergenza rispetto al passato, il rischio di perdere definitivamente gli assi cartesiani delle ultime generazioni è sempre più concreto. Eppure sono ragazzi e giovani i soggetti più importanti su cui comparativamente concentrarci, anche per avvertire di meno un’amara consapevolezza: il mondo degli adulti tende a chiudere gli occhi sulla drammatica riduzione di potere e sulla progressiva distanza dalle risorse che la struttura delle ricompense economiche e sociali della modernità porta con sé.

Peraltro questa scelta selettiva deve comunque essere sorretta da novità teoriche che abbiamo potuto acquisire nel lungo periodo di exploit della comunicazione mediale in Italia (anche partendo da presupposti disciplinari apparentemente non contigui). In quell’occasione è stato difficile accorgersi all’inizio che i giovani si ponevano come veri e propri driver dei processi di innovazione comunicativa, nella fase di incipit ‘indossati’ dalle generazioni sempre nuove ma che poi, nel giro di pochi anni (indicativamente un decennio), diventavano titolarità di tutta la popolazione. Come se i giovani ‘sentissero’ il nuovo e lo esplorassero nella sua prima manifestazione per poi renderlo una risorsa divulgata a tutta la società, inclusi dunque anche i pubblici meno giovani[2].

Chi ha studiato la cultura di massa conosce bene questo meccanismo di sperimentazione di nuove divise simboliche che portano con sé conseguenti inediti comportamenti e stili di vita. La scelta dei giovani, allora, è storicamente fondata, poiché sappiamo che essi annunciano un diverso ordine culturale sul momento archiviato riduttivamente come ‘comportamenti giovanili’. Del resto si rivela spesso inattendibile che essi siano destinati ‘a rientrare’ nel rassicurante ritmo sociale del già noto, mentre i cambiamenti simbolici di cui le nuove generazioni sono portatrici in realtà mascherano gli aspetti decisivi di un’identità sociale sospesa ‘a divinis’, sui cui contenuti troppo poco sappiamo. Tra le possibili cause ancora una volta dobbiamo citare il brutale allungamento dei tempi di attesa nell’assunzione di ruoli capaci di assicurare una transizione ordinata verso il mondo adulto e le conseguenti responsabilità. A questo punto il pensiero non può non correre ad alcuni personaggi letterari che hanno simbolicamente incarnato, con straordinario potere anticipatorio, l’apatia e l’anomia giovanile come Benjamin Braddock, protagonista de Il laureato (Webb 1968). In un significativo passo del romanzo Benjamin così replica al padre: «Vedi babbo, io ti sono grato per tutto ciò che hai fatto per me. Ti ringrazio per l’istruzione che mi avete dato. Ma guardiamo in faccia la realtà. Non ha funzionato. Non ne valeva la pena. È una cosa che non vale un soldo bucato». E poco più avanti così risponde all’interrogazione sui valori: «Valori. Valori … No, al momento non me ne viene in mente nessuno».

  1. Giovani tra ipercomunicazione e desocializzazione

«Dove le parole non sono pronunciate,

costruiremo con nuovo linguaggio»

Thomas Stearns Eliot

Scegliere i giovani per avvicinare una più vivida comprensione del nuovo significa dichiarare che il nodo di partenza è quello della qualità e dei caratteri di una socializzazione che agli studiosi si rivela presto infondata e senza radici. È un passaggio insuperabile per rispondere a diverse domande cruciali: quanto conosciamo i giovani di oggi, chi conta davvero lungo i percorsi di educazione sociale della modernità, come e dove si misurano le differenze con il passato, e spesso con le generazioni immediatamente precedenti. Certo la Sociologia è abituata ovviamente a leggere i giovani attraverso i segnali che essi mandano, ma anche qui occorre una notevole attenzione per selezionare i messaggi ‘di pura rappresentanza’ da quelli profondi; questi ultimi, se colti, sono per noi un’acquisizione preziosa, per ricostituire un minimo di comunicazione tra le età, contrastando la percezione che i cluster disegnati dall’anagrafe siano quasi sigillati e impermeabili rispetto alle trincee scavate dall’aging.

Non sfugge che mettere al centro il termine (o meglio il concetto) di socializzazione già di per sé rappresenta una dichiarazione di afferenza ad una letteratura per molti versi incapace di abbracciare scelte e soprattutto omissioni dei nuovi venuti. Qui arriva in aiuto una formula utilizzata, poco prima del Covid, da Massimo Cacciari leggendo la modernità come tempo in cui sembra finito «il potere di assimilazione della cultura»[3]. Si tratta di un concetto intrigante poiché sposta l’attenzione dalle istituzioni formali della riproduzione sociale (essenzialmente famiglia e scuola) ad una dimensione meno definibile che ha a che fare con il clima culturale, lo spirito del tempo e, soprattutto, con nuove percezioni sociali della rilevanza, segnando dunque la necessità di ricorrere a indicatori diversi per interrogare i cambiamenti già avvenuti: anzitutto gli interessi, le appartenenze informali, i legami gregari, senza contare le aggregazioni ma anche le associazioni (mai scomparse del tutto). Per cogliere questi giovani è essenziale tuttavia cercare di capire cosa non fanno rispetto alle generazioni precedenti, perché semplicemente non rientra in una lista di cose interessanti. Il problema però è tutto racchiuso nell’agenda quotidiana: il tempo principale è quello della connessione, always on (Savonardo, Marino 2021), e obiettivamente rimane poco per tutto il resto.

È vero che il digitale lascia poco ossigeno alle alternative, ma non possiamo dimenticare che, sempre, l’elaborazione dell’identità ha avuto bisogno di un ricorso generoso alla varietà, alle differenze e non alla monocultura simbolica oggi imperversante. Le ultime generazioni rinviano brutalmente nel tempo i conti con tutto ciò che non è organico alla moltiplicazione infinitesimale delle interazioni in rete. Della politica non parliamo neanche, perché è totalmente rimossa qualunque idea di delega; manca peraltro qualsiasi apertura all’informazione tradizionale, spesso persino quella online. Parimenti invisibili risultano la religione (quasi cancellata dalla neolingua binaria 0-1), la cultura, la battaglia delle idee, altri interessi e adesioni a reti non virtuali. Sono tutti mondi ispirati a un motto che, opportunamente aggiornato, ci arriva diritto da un sapere antico: de Deo nihil, de principe parum.

Tutto questo può davvero avvenire senza conseguenze per la socializzazione? Scelte di alimentazione comunicativa caratterizzate da contenuti non di rado tautologici e ripetitivi, profondamente condizionati da tempi di attenzione prossimi al frammento, costruiscono generazioni altre da noi, che fanno pensare a un processo di inculturazione postmoderno su cui è decisivo aprire un cantiere di conoscenza, anche perché non aiutano certo rimozioni o squalifiche. Sembrerebbe quasi che un filo di comprensione sia legato ad un forte sentimento della presa di distanza dagli adulti, con un bisogno neanche troppo mascherato di differenziarsi dalle generazioni precedenti (quelli di prima), e comunque dai genitori. I giovani sono profondamente diversi in casa e fuori, ricucendo dunque con fatica un’identità familiare oggi troppo spesso svuotata di senso. Vivono non raramente tempi sociali destinati a non incontrare persino gli adulti di riferimento, quasi ad evocare la mitica frase di Don Abbondio contro la «gente che gira di notte». Non ci vuole molto ad annotare che l’aumento della distanza culturale rispetto a qualunque ordinamento precedente consiste nel fatto che molti giovani cominciano a vivere quando i loro genitori ‘chiudono la giornata’. La tentazione di usare il termine ‘irregolari sociali’ è forte, ma bisogna resistere a qualunque generalizzazione impaziente, anche perché la nuova condizione materiale e simbolica dei giovani è prevedibilmente un luogo di differenze.

La ricognizione scientifica oggi risulta molto diversa dagli studi realizzati a partire dagli anni Ottanta sul network che sembrava costituirsi fra comunicazione, soprattutto televisiva, e socializzazione tradizionale. È decisivo ricordare che un buon numero di ricercatori si cimentò pionieristicamente nell’esaminare lo stato di salute della formazione e dell’impatto che su essa esercitava la Tv. È stata una pagina innovativa dell’indagine sociale di quegli anni (alimentata ovviamente non solo da sociologi dei media, tra i quali è doveroso citare almeno Elena Besozzi, Marina D’Amato, Donatella Pacelli e il compianto Stefano Martelli). Nel caso dei miei studi, riassunti dal titolo emblematico Passaggio al futuro[4], ho messo in campo un’elaborata verifica di efficienza per una socializzazione che assemblava agenzie tradizionali e comunicative, approdando ad una proposta teorica certamente non convenzionale per quella stagione, che ho chiamato con un termine fortunato autosocializzazione, sottolineando così la circostanza di osservare generazioni che reclutavano contenuti anche dall’educazione formale, ma inserendoli in un palinsesto in cui ritenevano di avere l’ultima parola sulle diverse forme di inculturazione proposte alle leve immediatamente precedenti.

È intuibile oggi che quel mix anche creativo, prolungatosi nel tempo, tra fonti, autorità e prassi educative ha rappresentato una lunga stagione di ‘prove generali’ di un fenomeno che definiremo come vera e propria secessione più o meno profonda dai modelli imposti dalla società e dagli adulti. Non c’è più la garanzia, e forse neppure la probabilità, di un processo che tradizionalmente era definito riproduzione sociale. Eppure sappiamo di più del posizionamento dei giovani verso Istituzioni e tradizione, anche se la nostra scienza si accontenta troppo spesso di una lettura ‘per viam negationis’: abbiamo più chiaro quanto non vogliono, non desiderano sentire o considerano stanca ripetizione di rituali esausti. Sembrano ‘nuovi venuti’ che credono così poco convincente la tradizionale cultura della formazione da sentirsi obbligati ad essere moderni, o più precisamente, ‘oltre’.

In altre parole, stiamo scoprendo (non con il necessario dettaglio) differenze che si costituiscono come autentiche faglie nel dispositivo di socializzazione, leggibili più a partire dalle teorie del cambiamento culturale e comunicativo che dalla riflessione specialistica, pur necessaria, sulla forza attribuibile oggi al sistema dell’istruzione, fortunatamente ampliatosi negli ultimi decenni anche grazie alla fondamentale ventata nella parità tra i generi. C’è da registrare che, nonostante gli sforzi e la buona volontà[5], è sostanzialmente diminuita la capacità di sintonizzarci sulle culture giovanili nuove, ma spesso anche quella di intercettarle e sottoporle ad analisi. Più in generale, il nodo consiste in un interrogativo radicale: quanto e come avviene oggi un percorso di costituzione sociale delle personalità in formazione.

Eppure avremmo dovuto sapere che ogni volta che cambia il sistema della comunicazione ciò non può non interferire con la formazione scolastica e familiare[6]. Se pensiamo poi che alla bolla comunicativa si è sostituita l’egemonia tecnologica, non possiamo più stupirci di alcune conseguenze tutt’altro che inattese: un radicale cambiamento dei temi discussi nello spazio pubblico, una riduzione delle basi culturali comuni e la rapida diffusione di etichette negative nella lettura del contemporaneo (dall’individualismo al populismo, dalla disintermediazione all’antagonismo soprattutto negli stili di vita).

Ci resta la constatazione di cogliere qualche trend non congiunturale come elemento identitario comune alle generazioni di oggi, dato dal riconoscimento di una continua domanda (non di rado anche imitativa) di innovazione quale che sia rispetto a modelli noti e perciò deprezzati. È un cluster che pure intreccia saperi e competenze, ma a cui sembra mancare la percezione di valore del passato e della tradizione. Dobbiamo recuperare molto in termini di sforzo di conoscenza, poiché gli studiosi non possono trascurare un cambiamento così violento, come se apparisse all’improvviso dal finestrino di un treno. È nostro compito, invece, trovare la forza di fermarlo per elaborarlo. Spetta infatti a noi chiarire ciò che nella formazione sociale degli individui è profondamente cambiato, quanto è irrevocabile, cosa giovani e società rischiano di perdere, scrutando con attenzione lo zapping dei nuovi contenuti e delle mille sfaccettature delle espressioni giovanili; esse possono porsi come possibile mappa interpretativa per un modello di socializzazione ispirato necessariamente all’interattività e ai device, più che portabili, pressoché incorporati.

Lo sfondo è quello di un pericoloso processo di traslazione della dimensione simbolica dell’auctoritas, banalmente e frettolosamente trasferita dal mondo degli adulti di riferimento e delle tradizionali agenzie, all’oggetto digitale accolto come totem cui dedicare un’attenzione esclusiva, prossima al vero e proprio culto.

È una dedizione che diventa spesso soggezione, senza peraltro alcuna garanzia che il tempo speso e i relativi contenuti possano antagonizzare davvero il vuoto valoriale (Fabene, Costa 2021) che tipicamente assilla esistenze ancora in formazione.

È decisivo aggiungere che ovviamente non possiamo caricare tutto ciò sulle spalle di ragazzi e giovani, assecondando un’insopportabile e inefficace retorica della colpa. Impossibile non ricordare che la ‘navigazione’ nella formazione moderna è oggi scarsamente assistita dal supporto di adulti che non si pongano come spettatori ma scelgano la postura di essere significativi e rilevanti. Come sempre autorevole, in proposito, è un’annotazione di Pierpaolo Donati che ci ricorda quanto il modello attualmente dominante nella comunicazione altro non è che «il nutrimento dell’attacco alle relazioni» (Donati, Maspero 2021).

In queste riflessioni tutt’altro che definitive e rese più amare dalla sensazione che sono state licenziate dimensioni che forse ‘non dovevamo perdere’, e dunque avremmo dovuto diversamente difendere, si colloca la possibilità di stressare un concetto che abbiamo a lungo accarezzato negli studi, suggerendo anzitutto il termine post-socializzazione. Ma avviandoci a valutare la sua capacità euristica, serve un concetto più deciso e meno descrittivo di quello stancamente ispirato al post, che riteniamo di designare come desocializzazione. Continuiamo dunque a pensare che una qualche interazione sociale di qualità sempre circoli soprattutto negli anni fragili della formazione, ma a condizione di sapere che il sentiment con cui essa viene percepita e rielaborata confluisca nel privativo del termine socializzazione, senza escludere che presso aree non secondarie della gioventù tutto ciò dia luogo a una vera e propria controsocializzazione[7].

Come in tutte le società che abbiamo conosciuto e studiato (includendo qui anche quelle primitive), le lacune e talora i disastri di una socializzazione ‘evirata’ sono particolarmente visibili nelle forme di devianza adolescenziale e giovanile. Esse trovano un’amplificazione nel moltiplicarsi di fatti di cronaca che ci pongono di fronte – come studiosi, operatori della formazione, ma anche semplicemente adulti – ad interrogativi divenuti, negli ultimi anni, di scottante attualità: quanto riusciamo a capire i giovani? Fino a che punto gli studi e le ricerche disponibili sono in grado di restituire un’immagine realistica dei ragazzi del nostro tempo? E in quale misura ci siamo assuefatti ad una rassegnata accettazione di tutto, magari giustificata dalla sensazione inconfessata che i ragazzi di oggi ci sembrano spesso stranieri?

Qui ci soccorre un illuminante passaggio di Thomas Harrison che riflette sugli aspetti di incompiutezza della conoscenza: tutte le discipline «sono nutrite dalla cognizione di quanto nel mondo non sia compreso, benché offrano un corpo di conoscenze sostanziale e positivo. Il procedimento stesso del comprendere è fatto di risposte a quesiti, risposte che fanno sorgere ulteriori quesiti» (Harrison 2017).

Il problema si accentua perché i giovani rappresentano una metafora delle difficoltà di cambiamento, con il loro stile provocatorio, che si nutre di una esaltazione delle differenze più che di una valorizzazione degli elementi di condivisione o, peggio, di continuità con le generazioni precedenti. ln questo senso, anzi, essi diventano una fortissima cassa di risonanza del disagio vissuto da un’intera società, proponendosi come il luogo in cui più chiaramente appare la difficoltà di adeguarsi ad un’impalcatura di valori ‘normale’ soltanto perché, come tale, è vissuta ed etichettata nella routine del linguaggio quotidiano.

La comunicazione giovanile è sempre meno sistema e sempre più reticolo, fatto di chat e relazioni orizzontali social, di quel pianeta infinito di possibilità e forme espressive che soltanto le tecnologie digitali sono in grado di offrire e far esplodere, mentre la comunicazione degli adulti resta sostanzialmente congelata nella vetrina del mainstream. Capire i giovani, dunque, significa studiare quelli che ‘abitano’ la comunicazione, saper leggere l’atlante delle loro espressivi su cui si impernia la ‘messa in scena’ di un’inevitabile e spesso ostentata frattura con gli adulti. Ma sono soltanto linguaggi? In realtà dietro alle forme espressive si intravvedono stili di rappresentazione cognitiva, modelli di costruzione del proprio progetto sociale, che ci pongono di fronte a un radicale cambiamento dell’intersoggettività, del rapporto ego/alter, dei percorsi dell’identità e della socializzazione.

In proposito la ricerca empirica deve saper cogliere il senso di malessere e inadeguatezza giovanile e, al contempo, registrare gli elementi di rappresentazione del disagio da parte degli insegnanti e degli adulti di riferimento.

La difficoltà, in questo caso, consiste soprattutto nel cercare di ridurre la distanza tra ricercatori e ‘oggetto osservato’, laddove quest’ultimo è assolutamente ‘vivo’ e sfuggente, quasi refrattario a qualunque tipo di classificazione e ‘stoccaggio’. Il rischio in cui si incorre, soprattutto quando si studiano i giovani, è quello di costruirsene un’immagine stereotipata o, nel migliore dei casi, idealizzata e simbolica, restando pericolosamente fedeli ad una linea interpretativa che vede le nuove generazioni come portatrici di una controcultura giustapposta di fatto alla cultura ‘legittima’ dei padri. Oltre tutto, nel fare ricerca – e ancor più nel presentarne i risultati – rischiamo spesso di sovrapporre parole vecchie a realtà nuove. Lo stesso termine ‘devianza’ è ormai fuori corso, qualcosa che dal punto di vista conoscitivo non permette di valutare la profondità del problema, confermando una sostanziale difficoltà di perlustrazione empirica del fenomeno.

Allora è bene ragionare sugli strumenti e sui metodi che si rivelano idonei più di altri a restituirci la realtà, garantendoci una pur necessaria possibilità di quantificazione dei fatti sociali. Somministrando un questionario, il ricercatore impone le sue parole al mondo rischiando di costruire, almeno in parte, la risposta, come una profezia che si autoadempie. Grazie ai focus group, il modo di far ricerca è invece meno ‘repressivo’, non formattato sulla sintassi dei valori del ricercatore, riuscendo, più agevolmente, ad intercettare ‘atlanti’ diversi della realtà. In un’indagine di diversi anni fa sul bullismo nella Provincia di Roma[8], ci aveva colpito constatare che 850 ragazzi su 891 avevano risposto che la famiglia era la cosa più importante della loro vita; solo il livello di approfondimento delle tecniche qualitative ci ha permesso di andare oltre e ragionare più ad ampio raggio, costruendo un universo simbolico certamente più pertinente. In questo nuovo scenario – che ricaviamo dalle parole e dalle interazioni dei ragazzi – la famiglia si riduce ad una ‘dispensa di affettività’, di certezze e puro sostegno materiale: una specie di ‘welfare truccato’, che cerca di rimediare ai difetti strutturali della società. In un contesto così caratterizzato, oltre ad elargire benessere e sicurezza, i genitori sono ancora in grado di orientare ai valori e indicare i miti di una generazione?

La fragilità dei giovani d’oggi si spiega – almeno in parte – con i ritardi enfatizzati dalla modernizzazione in quei momenti che un tempo costituivano passaggi cardine della crescita, della ‘ruolizzazione’ e dell’accesso al mondo adulto.

Ciò che oggi viene spacciato per flessibilità non può nascondere troppo a lungo i difetti di un sistema in cui un’altra dimensione costitutiva dell’identità sociale, come il lavoro, diventa una prospettiva a breve termine sempre più improbabile. Accanto a questo, la costruzione di una stabile architettura degli affetti, fondata sulle certezze del matrimonio e della procreazione, finisce per essere sempre più ritardata nel tempo. In tale scenario, i segni manifesti del corpo e dell’abbigliamento, come i tatuaggi o l’ostentazione dell’ombelico — spesso urtanti per l’estetica degli adulti — non costituiscono semplicemente provocazioni, ma segnali che rimandano ad una gestione dell’affettività e delle relazioni radicalmente differente rispetto al passato. Il consumismo sentimentale, la necessità di divorare rapidamente emozioni, affetti e sensazioni sono continuamente testimoniati dalle vicende proposte dai giornali e dalla tv. I tanti episodi di cronaca che hanno coinvolto i giovani, soprattutto gli adolescenti, sono esemplificativi della voglia di oltrepassare il limite, incuranti delle regole sociali e impazienti di bruciare le tappe.

In questa società parlare di valori è diventata un’impresa, soprattutto quando si lamenta una loro evidente ‘crisi’. Raccontarli è difficile, tanto più che essi vengono sempre un po’ incorporati e ‘incartati’ nei saperi che la scuola ha il compito, ma non più la forza, di trasmettere[9]. La teoria dell’educazione, infatti, parla bene. Conosce l’uomo civilizzato e quasi addomesticato alle sue regole. Entra però in tragica difficoltà quando si affermano forme di indifferenza, se non di repulsione da parte di quelli che dovrebbero impersonare gli utenti del processo.

Perché i giovani rifiutano il valore della mediazione? La rifuggono e vanno dove questa non si presenta come tale, magari nascondendosi dietro lo schermo di un pc: anche in Internet ci sono forme di influenza, ma lì i messaggi passano più facilmente, perché non sono percepiti come parte dell’obbligo formativo.

Desocializzazione è dunque la parola-chiave di riferimento, ed essa non significa assenza quanto rifiuto della mediazione. Le ‘ricette’ degli adulti e tutto ciò che è percepito come prescrittivo non sono credibili. Può sembrare un discorso ancora legato al tradizionale modo di analizzare le controculture. Ma non è solo questo. Mentre i contro-valori sono il prodotto di una mediazione tra ciò che gli adulti propongono e quanto i giovani si aspettano, i dis-valori esprimono il forte disagio di una generazione che non si accontenta semplicemente di segnalare la propria differenza, ma ambisce a costruire una nuova piattaforma di socializzazione, portando innovazioni radicali nei suoi meccanismi di funzionamento. In questo contesto di transizione, i giovani sognano di annullare l’alterità e le distanze che li separano dagli adulti, destituendo l’educazione della sua stessa sostanza.

  • La fine dei poli normalità/devianza.

Una nuova sfida per l’educazione.

«Il capitale umano del Paese.

Perché dobbiamo tornare a studiare».[10]

Antonio Catricalà

Un punto esemplificativo del nostro modo di guardare ai disvalori è la tendenza a evitare comportamenti percepiti dai giovani come pericolosamente normali praticando un caleidoscopio di mediazioni e compromessi fra trasgressioni più o meno micro e veri e propri progetti di sperimentazione di nuove condotte. Un esempio particolarmente duraturo e clamoroso si è rivelato quello del bullismo (Monaci 2022), paradossalmente messo in scena proprio lungo il tempo della formazione. Su questo fenomeno gravava, all’inizio delle sue manifestazioni, un problema di forte sottovalutazione e addirittura di rimozione, che tuttora si accompagna, in apparente contraddizione, ai tratti della normalità e della routine, laddove esso non è necessariamente correlato a situazioni di evidente difficoltà sociale. L’impressionante aumento dell’attitudine alla violenza ‘micro’, dove la prevaricazione diventa opzione abituale dei ragazzi, modo di essere e interagire, si riscontra anche in un mondo in cui questa era un tempo sconosciuta o quanto meno negata: quello femminile.

Tutto questo avviene nella prevalente ‘atonia’ degli insegnanti che, di fronte alla difficoltà di leggere le generazioni e timorosi davanti a qualcosa che non sempre si manifesta in forme riconoscibili o estreme, finiscono per negarne l’esistenza all’interno del proprio ‘recinto’ e per denunciare soltanto quello che accade ‘nella porta accanto’. L’esplosione del fenomeno, dunque, trova una delle sue ambientazioni privilegiate nella scuola: quanto ancora questa istituzione può farcela a sostenere i drammi e le fratture del cambiamento sociale e del gap generazionale che sembra inesorabilmente intralciare qualunque forma di dialogo tra giovani e adulti?

L’altro annoso problema è quello delle attribuzioni di responsabilità: qualche volta tocca alla famiglia, altre volte alla scuola, sentirsi sotto accusa e, sempre più spesso, anche ai media. Ma è surreale attribuire colpe univoche o ad personam.

Dobbiamo pensare alle forme di trasgressione e devianza adolescenziale (bullismo compreso) come a dissonanze aberranti rispetto ad un sistema formativo depotenziato e deprivato della sua funzione regolatrice. In questo senso, il problema è estensibile alla difficoltà di produrre educazione nel nostro tempo. Si tratta a ben vedere di una sfida spirituale che ha bisogno di un coinvolgimento dell’individuo e di una cornice pubblica di forte legittimazione, proprio in una fase in cui diminuisce il ‘fondamentalismo della scuola’ e aumenta la sua opzionalità. Questo trend è denunciato a chiare lettere dal recentissimo Rapporto Caritas che documenta del resto l’allarmante aumento della povertà educativa. Questa rischia di provocare danni per diverse generazioni vanificando dunque ogni prospettiva o speranza di equità (Caritas italiana 2022).

È chiaro che la colpa di tale stato di cose non è da attribuire agli studenti perché, come ripetutamente afferma anche Leonardo Sciascia nei suoi romanzi[11], l’educatore ha sempre più responsabilità dell’educato. E il senso di colpa manifestato in proposito dagli adulti e dalle istituzioni la dice lunga.

Per contrasto, chiamiamo allora in causa recenti indagini dell’Istat, che peraltro hanno preso le mosse già dal 2005. Esse dimostrano che i giovani intorno a cui elaboriamo i nostri discorsi sono spesso ragazzi molto attivi, che fanno della comunicazione la cifra della vita sociale. I bambini e gli adolescenti dai 3 ai 17 anni frequentano assiduamente gli amici e, nel loro tempo libero, sono protagonisti di numerose e diversificate attività di consumo culturale. Abitudini confermate anche negli anni successivi. Il tempo libero dei giovani si connota per uno stile eminentemente relazionale, in cui le pratiche mediali si configurano come spazi di negoziazione dei significati, ma anche di forte investimento simbolico per la costruzione dell’identità individuale. Non a caso persino la lettura dei libri è in aumento nella fascia 6-17 anni, tanto da diventare uno dei consumi preferiti e identificativi di quel tagliando di generazione. Tendenze sostanzialmente confermate anche dalle indagini condotte nell’anno della pandemia[12]. Un discorso analogo può essere fatto per la frequenza dei corsi di formazione extrascolastica (sport, musica, danza, lingue straniere, etc.). Senza dimenticare un tema ancor più evidente ed attuale, quello della straordinaria ipersensibilità giovanile verso le tematiche ecologiche ed ambientali[13].

Come, in questo scenario contraddittorio, ‘diventare risposta’ riportando alla memoria un celebre monito di Bauman? Senza timore di ripeterci, non possiamo evitare di chiamare in causa la Media education[14], che rappresenta la più significativa ed efficace forma di ripristino delle mediazioni, in grado di ‘salvare’ famiglia e scuola restituendole alla loro funzione prioritaria, quella di educare.

Un ulteriore segnale di attenzione alle nuove generazioni dovrebbe provenire dunque proprio dall’atteggiamento che assumiamo per studiarli. I giovani sono prima di tutto attori sociali e comunicativi. Più che interessarci a come usano la vetrina dei media, dovremmo interrogarci su come ricostruiscono e producono un loro sistema autonomo di interazioni mediali. Ma occorre anche uno sforzo in più: invece di guardare solo quel che fanno, cerchiamo di capire come stanno.

Le drammatiche differenze tra adulti e ragazzi e l’attuale ‘verità’ dei processi di socializzazione si fondano oggi su una diversa disponibilità all’uso delle tecnologie mediali, senza trascurare il fatto che anche lungo il percorso educativo si producono forme precoci di divide, che rimandano alla vertenza sempre più urgente della povertà formativa e digitale[15].

È per questo che studiare gli stili di vita e le micro-interazioni comunicative è il modo migliore per tentare di riparare alcune lacerazioni drammatiche dello scambio generazionale, cogliendo i segnali di un ardito disegno di «ricostruzione della mediazione». Come scrive Alessandro Rosina, l’Italia «dovrebbe diventare un paese alleato dei giovani». Troppo spesso infatti essi hanno «la percezione di vivere in un paese che offre meno opportunità rispetto ai coetanei degli altri paesi europei» (Istituto Giuseppe Toniolo 2022).

È giusto che un saggio scientifico si chiuda con un epilogo altisonante; chiamiamo allora in causa un invito di Gianni Letta a «concentrare le forze. Restare fisicamente distanti, certo, ma in una comunione di intenti spirituali, di forza morale e di intelligenza pratica, per programmare cosa farà il nostro Paese» dopo le emergenze. «Non facciamoci trovare con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Non c’è posto per la rassegnazione…» (Catricalà 2021). È un monito che ci spinge a tenere aperto instancabilmente il cantiere dell’attenzione, anche rischiando di indossare le vesti di educatori inascoltati e fuori corso disorientati dai confini evanescenti di una ‘terra desolata’. Da quelle sabbie mobili si esce ancora una volta abbracciando il mandato sociale della formazione e dunque il suo rispetto. E qui soccorre un intenso ed illuminante passaggio letterario di Franco Ferrucci: «In perfetta buona fede, il giovane credette di avere qualcosa da dire, mentre aveva soltanto un gran desiderio che gli si dicesse qualcosa» (Ferrucci 1982).

 

Riferimenti bibliografici

Braudel F., Mediterraneo. Lo spazio, la storia, gli uomini, le tradizioni, Bompiani, Milano 2017.

Caritas italiana, L’anello debole. Rapporto 2022 su povertà ed esclusione sociale in Italia, Roma 2022.

Catricalà A., Conoscenza, competenza, creatività, crescita. Il capitale immateriale per l’Italia di domani, Introduzione di Gianni Letta, Laterza, Bari-Roma 2021.

Cocozza A., Capitale immateriale, etica, education, competenze e sviluppo, in Mario Alì (a cura di), Conoscenza, competenza, creatività, crescita. Il capitale immateriale per l’Italia di domani, Introduzione di Gianni Letta, Laterza, Bari-Roma 2021.

Donati P., Le relazioni familiari nell’era digitale, Edizioni San Paolo, Roma 2020.

Donati P., Maspero G., Dopo la pandemia. Rigenerare la società con le relazioni, Città Nuova, Roma 2021.

Fabene F., Costa C., Giovani. Un progetto di vita (prefazione di Mario Morcellini), San Paolo Edizioni, Roma 2021.

Ferrucci F., Lettera a un ragazzo sulla felicità, Bompiani, Milano 1982.

Harrison T., L’arte dell’incompiuto, Castelvecchi, Roma 2017.

Istituto Giuseppe Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto Giovani 2022, Il Mulino, Bologna 2022.

Mesa D., Triani P., Marta E., La scuola: una risorsa strategica per i giovani e per il Paese, in Istituto Giuseppe Toniolo 2022.

Monaci S., Odio social. Tecnologie e narrative della comunicazione in rete, Egea, Milano 2022.

Morcellini M., Passaggio al futuro: la socializzazione nell’età dei mass media, FrancoAngeli, Milano, nuova edizione 1992.

Morcellini M. (a cura di), Il Mediaevo italiano. Industria culturale, tv e tecnologie tra XX e XXI secolo, Carocci, Roma 2005.

Morcellini M., Leggere i segni e le provocazioni della new age, prefazione a S. Tirocchi, Ragazzi fuori, FrancoAngeli, Milano 2008.

Morcellini M., Prospero M., La comunicazione al posto della politica, «Paradoxa», 3, 2020.

Savonardo L., Marino R., Adolescenti always on. Social media, Web reputation e rischi online, FrancoAngeli, Milano 2021

Sciascia L., Candido, ovvero un sogno fatto in Sicilia, Einaudi, Torino, 1977.

Sciascia L., A ciascuno il suo, Einaudi, Torino 1966.

Tirone A., I bambini sono i lettori più assidui. Cresce il digitale ma il libro fisico resta centrale, in «ADG Informa», 15-6-2021.

Van Hoof E., Lockdown is the world’s biggest psychological experiment – and we will pay the price, «World Economic Forum», 9 aprile 2020: COVID lockdown is world’s biggest psychological experiment | World Economic Forum (weforum.org)

Webb C., Il laureato (traduzione italiana di Vincenzo Mantovani), Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1968.

[1] Il riferimento va a Elke Van Hoof che, forse per prima, ha parlato del Coronavirus e in particolar modo del lockdown come del «più grande esperimento psicologico del mondo» (Van Hoof 2020).

[2] Su questo tema, oltre agli annuali Rapporti Censis, rinvio per un’adeguata documentazione all’ampia antologia da me curata sulla storia delle «rivoluzioni comunicative» (Morcellini 2005).

[3] Il passaggio è tratto da un Convegno dell’Associazione Italiana Docenti Universitari (AIDU), organizzato il 7 maggio 2019 dal Presidente Alfonso Barbarisi presso l’Istituto Luigi Sturzo di Roma.

[4]Sulla necessità di accostare euristicamente gli studi sulla formazione sociale all’impatto della comunicazione, rinvio a Morcellini 1992.

[5] Mi riferisco ad esempio, fra i moltissimi contributi, al testo AA. VV. a cura di Cisl Pensionati, Oltre le frontiere: generazioni e culture, Guerini e Associati, Milano 2016 e, in particolare, al capitolo Giovani. Periferie che si sentono centro da me firmato in quel volume.

[6] Non possiamo non citare qui gli studi sistematici di Pier Paolo Donati e del suo Gruppo riportati nei Rapporti CISF. Si veda in particolare Donati 2020.

[7] Basti pensare ai più drammatici ed eclatanti fatti di cronaca come il rave party di Valentano nell’agosto del 2021. Rimando a questo proposito alla rubrica che firmo per la Rivista Formiche, “Rave. La terra desolata” (settembre 2021).

[8] Una sintesi di quella ricerca è reperibile in Morcellini 2008.

[9] Per un aggiornato ed articolato esame della centralità ma anche delle criticità dell’Istituzione scolastica, dopo l’impatto della pandemia, si veda Mesa, Triani, Marta, 2022.

[10] Si tratta del titolo che l’autore ha dato al suo contributo nell’antologia curata da Mario Alì (Alì 2021) Il saggio citato è uno degli ultimi firmati da Antonio Catricalà, intellettuale e grande servitore dello Stato prematuramente scomparso.

[11] Cfr. anzitutto Sciascia 1977; ancor più amaro è quanto ammette un padre: «E allora, se responsabili ci sono, bisogna cercarli tra i più vicini: e nel caso di mio figlio si potrebbe cominciare da me, ché un padre è sempre colpevole, sempre» (Sciascia 1966).

[12] Bambini e ragazzi tra libri, app e podcast nell’anno del Covid-19, indagine realizzata dall’Ufficio studi dell’Associazione Italiana Editori, AIE, in collaborazione con Pepe Research e «Bologna Children’s Book Fair» (giugno 2020) delinea uno scenario in cui sono il 77% i giovani lettori, contro il 61% della popolazione adulta. I lettori più assidui si collocano nella fascia 4-6 anni (93%), valore che scende all’84% tra 7-9 anni e al 65% tra 10-14 anni. Secondo l’Indagine, inoltre, il libro fisico rimane la scelta preferita, nonostante lo sviluppo del digitale: il 69% di chi legge lo fa solo con libri a stampa o tattili (per la fascia 0-3). La lettura si aggiunge poi ad altre attività ed esperienze legate ai social e alla rete. Soprattutto nella fascia 7-14 anni diventano sempre più popolari contenuti editoriali legati a personaggi di serie tv, youtuber, tiktoker. Youtube è utilizzato dall’82% nella fascia 4-14 anni; il 64% utilizza social network e sistemi di messaggistica. «La lettura – commenta Gianni Peresson, responsabile dell’Ufficio studi di AIE – si inserisce sempre più in una rete di altre attività e di consumi culturali legate alla rete, ai social, alle immagini e per questo assume forti elementi di occasionalità». Cfr. Tirone 2021: Aie. I bambini sono i lettori più assidui. Cresce il digitale ma il libro fisico resta centrale – ADG Informa.

[13] Tempestivo e prezioso è qui il riferimento alla ‘lezione civile’ di Papa Francesco racchiusa nell’Enciclica Laudato si’.

[14] Nell’ampia e sempre più convincente letteratura sul tema, non possiamo dimenticare che ricorre il decennale della scomparsa di Don Roberto Giannatelli, noto pedagogista arrivato all’incarico di Rettor maggiore dell’Ateneo Salesiano, ma soprattutto ispiratore instancabile dell’inserimento nelle scuole della media literacy.

[15] Rinvio in proposito alla Ricerca avviata da MUR e CRUI sulla povertà educativa e digitale che punta a valorizzare l’imponente letteratura sul tema, sviluppata sia dalle Istituzioni che da benemerite Associazioni del Terzo Settore.

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