Dino Cofrancesco – CONSUMISMO CULTURALE. LA SINISTRA CI RIPENSA

(estratto da Paradoxa 3/2014)

Il consumismo da qualche tempo non sembra più il cavallo di battaglia dell’area politico-culturale progressista, che si riconosce nel centro-sinistra (un centro-sinistra, peraltro, molto esteso, variegato e conflittuale al suo interno), né dell’area politico-culturale ancorata a una visione premoderna e tradizionalista della storia e della società contemporanea.
Certo gli eredi dei Lumi, di Condorcet, di Marx, di Gramsci, non hanno deposto le armi e la critica della società dei consumi (era il titolo di un saggio di Jean Baudrillard) trova ancora intellettuali militanti impegnati nella denuncia. Qualche anno fa è uscito, per fare un solo esempio significativo, uno scritto di Zygmunt Bauman intitolato Consumo quindi sono (Ed. Laterza 2006) che sembrava riprendere le fila di un discorso consegnato a un testo ormai ‘classico’ come la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer (tenuto ben presente da Paolo Flores d’Arcais nel fascicolo 6/2013 di «MicroMega», dedicato al tema L’intellettuale e l’impegno), una critica radicale, per non dire spietata, dell’industria culturale.

«Società dei consumatori» – vi si legge – è il tipo di società che promuove, incoraggia o impone la scelta di uno stile di vita e di una strategia di vita improntati al consumismo e disapprova qualsiasi opzione culturale alternativa; una società in cui l’adattamento ai precetti della cultura dei consumi e la loro rigida osservanza è, da qualsiasi punto di vista pratico, l’unica scelta approvata senza discussione: scelta praticabile – e dunque plausibile – e condizione di appartenenza.
Nel saggio Bauman – divenuto da qualche anno il maitre-à-penser della political culture antagonista –, fa a pezzi l’idea, sovente ribadita da liberali doc come Sergio Ricossa o Piero Ostellino, che alla base della «società aperta» pone la «sovranità del consumatore».

Nella sua fase conclusiva il passaggio dalla società dei produttori e dei soldati alla società dei consumatori è normalmente ritratto come processo di graduale emancipazione degli individui (destinata a completarsi) dalle originarie condizioni di «assenza di scelte» e dalle successive condizioni di «scelta limitata», da scenari predefiniti e routine obbligate, da vincoli preordinati e prestabiliti e da schemi di comportamento coercitivi, o quanto meno indiscutibili. In sintesi, questo passaggio è rappresentato come nuovo balzo, probabilmente definitivo, dal mondo dei vincoli e dell’assenza di libertà all’autonomia individuale e al controllo di sé. Il più delle volte tale passaggio è dipinto come il definitivo trionfo del diritto individuale all’autoaffermazione, visto in primo luogo come sovranità indivisibile del soggetto privo di vincoli: sovranità che a sua volta viene tendenzialmente interpretata come diritto individuale alla libera scelta. Il singolo membro della società dei consumatori è definito, prima di tutto e soprattutto, come Homo eligens.

Nulla di più falso, secondo il filosofo sociale, di questo quadro stucchevole e idilliaco. In realtà, stiamo assistendo all’annessione e alla colonizzazione dell’esistenza individuale da parte dei beni di consumo.

Se si concorda con l’affermazione di Carl Schmitt, secondo cui la prerogativa ultima che definisce la sovranità è il diritto di esentare, si deve ammettere che nella società dei consumatori il vero titolare del potere sovrano è il mercato dei beni di consumo; è lì, nel luogo dove si incontrano venditori e compratori, che avviene quotidianamente la selezione e la separazione tra chi è dannato e chi è salvo, chi è dentro e chi è fuori, chi è incluso e chi è escluso (o, più precisamente, tra i consumatori come si deve e quelli difettosi).

Ormai la dignità degli individui sta solo nella capacità di soddisfare i requisiti di idoneità definiti dagli standard di mercato, che cambiano continuamente per soddisfare gli imperativi della produzione e del consumo. Il trucco beige, che fino a qualche tempo fa, era segno di sicurezza e di distinzione, col mutare della moda diventa un colore «spento e brutto», un «marchio di disonore, segno di ignoranza».
Credo sia superfluo sottolineare come, in questo quadro teorico, i consumi culturali – sui quali, peraltro, non ci si sofferma – risultino in pratica indistinguibili dai prodotti dei supermarket. Gli sciami di consumatori che affollano le nostre città seguono solo la «direzione momentanea di volo».

Il vantaggio di volare in sciame sta nella sicurezza del numero: nella convinzione che la direzione del volo sia stata scelta bene, visto che è uno sciame imponente a seguirla, e nell’idea che non si possano ingannare contemporaneamente tanti esseri umani che sentono, pensano e scelgono in libertà. I movimenti miracolosamente coordinati di uno sciame gli danno un’auto-rassicurazione e un senso di sicurezza che sono i migliori surrogati dell’autorità dei leader di un gruppo, e non sono da meno in quanto a efficacia.

Tutti ai fast food, ai takeaway, ai ‘pasti pronti’, e aggiungiamo, alle partite di calcio e ai luoghi in cui si proiettano film o si danno concerti musicali (ritenuti) di quart’ordine, non al fine di intessere autentici rapporti umani con gli altri ma di unire la propria solitudine a quella degli altri. È l’intramontabile critica della mass society sulle cui origini culturali e valenze etico-politiche ha scritto pagine indimenticabili, tra gli altri, storici e sociologi come Domenico Settembrini e Luciano Pellicani.
E tuttavia non è solo il neo-francortismo a lanciare il suo atto d’accusa contro l’alienazione del compratore. Si pensi a quanto scriveva nel saggio Trattatello elementare su illuminismo, romanticismo, avanguardia, pubblicato su «Conoscenza religiosa» (VIII, 1976,2), il tradizionalista Elémire Zolla, passato, non senza coerenza interna, da Adorno a Tolkien:

un urlo di orrore sfugge a chi per un momento si ridesti nel mondo del quotidiano, e si veda circondato da gente che in questa oppressione vive senza nemmeno sentirne l’asfissia: conversa di fatterelli insensati, di squadre sportive, di spettacoli televisivi, di vicende narrate dai rotocalchi, sta sommersa nell’immondizia musicale come in un bagno di vapore che la tranquilla, stordisce |…| gli uomini della quotidianità sono come baccelli sgranati o come manichini impagliati.

Ma vanno pure ricordati due liberali, in servizio permanente come Karl R. Popper e Giovanni Sartori che non hanno esitato a portare il loro granello di sabbia alla ‘nuova resistenza’ contro il consumismo culturale, identificato, in entrambi i casi, col più potente dei mezzi di comunicazione di massa, la televisione. Nel saggio, Cattiva maestra televisione (Ed. Reset-Donzelli, 1996), il teorico che aveva visto in Platone, in Hegel, in Marx i ‘nemici’ della società aperta, sembra quasi riproporre una sorta di pedagogismo etico-politico giacobino. Per fronteggiare i pericoli ai quali il mezzo televisivo espone bambini e adolescenti – l’esposizione alla violenza, agli aspetti disumani e crudeli del mondo contemporaneo – Popper sostiene la necessità di un «codice etico» e di un istituto che abiliti futuri programmatori di palinsesti televisivi a una professione estremamente delicata, che richiede sia competenza tecnica sia (soprattutto) responsabilità morale. Solo così si può essere sicuri che l’immenso potere degli operatori del piccolo schermo non prepari una società di mostri.
La proposta sorprende per la sua ingenuità illuministico-razionalistica, ma si tratta di risposta inadeguata a un problema oggettivamente serio. È lo stesso problema che, in maniera più articolata, pone Giovanni Sartori, nel saggio Homo videns (Ed. Laterza, 1998). Richiamandosi ai classici della democrazia, il politologo fiorentino ricorda il nesso inscindibile che per loro doveva legare il governo del popolo all’elevazione culturale delle masse: «A differenza dei progressisti del momento, i progressisti del passato non hanno mai fatto finta di non capire che ogni progresso di democrazia – di autentico potere del popolo – dipendeva da un demos “partecipante” interessato e informato di politica». Un potere senza rapporto col sapere era l’anticamera degli Inferi – e, a integrazione dell’analisi di Sartori, va ricordato che questo convincimento non caratterizzava soltanto quello che è stato definito il ‘liberalismo aristocratico’ ma, altresì, la concezione esigente di ‘democrazia’ che si ritrova ad esempio in pensatori come Alessandro Levi e Rodolfo Mondolfo, che al realismo storico di Marx univano le più nobili idealità mazziniane.

Il punto è che ogni massimizzazione di democrazia […] richiede che gli informati aumentino e che, al tempo stesso, ne aumenti la competenza, il sapere e il capire. Se questa è la direzione di marcia, allora ne risulta un demos potenziato, capace di fare più e meglio di prima. Ma se, invece, questa direzione di marcia si inverte, allora approdiamo a un demos indebolito. Che è esattamente quanto sta accadendo.

Richiamandosi espressamente a Kant, Sartori, porta sul banco degli imputati il potere televisivo, in termini che Bauman, pur così lontano ideologicamente da lui, non potrebbe non condividere:

quel che noi concretamente vediamo o percepiamo non produce «idee», ma si inserisce in idee (o concetti) che lo inquadrano e «significano». E questo è il processo che viene atrofizzato quando l’homo sapiens viene soppiantato dall’homo videns. In quest’ultimo il linguaggio concettuale (astratto) è sostituito da un linguaggio percettivo (concreto) che è infinitamente più povero: più povero non soltanto di parole (nel numero di parole) ma soprattutto di ricchezza di significato, di capacità connotativa.

Ne deriva un quadro d’insieme che non potrebbe essere più sconfortante anche se non contraddice (come è stato superficialmente rilevato dai critici) il liberalismo al quale Sartori si richiama e la cui matrice profonda, non dimentichiamolo, è un’antropologia pessimista che, per così dire, «viene da lontano».

Siamo assediati da imbonitori che ci raccomandano con grandi squilli di tromba nuovi meccanismi di consenso e di intervento diretto dei cittadini nelle decisioni di governo, ma che tacciono come mummie sull’antefatto del discorso, e cioè su quel che i cittadini sanno ovvero non sanno delle questioni sulle quali dovrebbero decidere. Il sospetto che questo sia il problema nemmeno li sfiora. […] Il quadro d’insieme è dunque questo: che mentre la realtà si complica e le complessità aumentano vertiginosamente, le menti si semplicizzano e noi stiamo allevando – ho già detto – un video-bambino che non cresce, un adulto che si configura per tutta la vita come un ritornante bambino. E questo è il malpasso, il malissimo passo, nel quale ci stiamo attorcigliando.

Non è questa la sede per discutere se il pessimismo sia o non sia autorizzato dal disegno oggettivo degli eventi che ha confezionato per noi la storia degli ultimi due secoli. E del resto non tutti i liberali sono propensi a condividere la critica serrata alla ‘società dei consumi’. Vi sono anche prestigiosi economisti che se ne assumono apertamene la difesa, come Sergio Ricossa che, ne La rivoluzione dei consumi (in P. Melograni e S. Ricossa, a cura di, Le rivoluzioni del benessere, Ed. Laterza, 1988), tesse l’elogio proprio della figura del consumatore sovrano, oggetto dell’ironia di Zygmunt Bauman:

Consumatori «sovrani»: pertanto, consumatori responsabili del proprio modo di vivere. Attribuire al mercato o ai capitalisti colpe e difetti che appartengono piuttosto ai consumatori è un trucco polemico a scopo demagogico, col quale evitare di offendere i ceti popolari, pur criticandone i costumi. La volgarità di molti programmi televisivi, per esempio, è posta a carico di chi gestisce le stazioni emittenti, ignorando che quei programmi non verrebbero prodotti se non piacessero a una miriade di spettatori. Ma, per usare l’espressione di George Stigler, «i camerieri non sono responsabili dell’obesità dei loro clienti»: essi si limitano a servire quanto viene loro chiesto.
Certo, il motivo del profitto indurrà i ristoranti a vantare la propria cucina: il mercato è tentatore, benché non obblighi nessuno; ma e anche neutrale, perché tenta in tutte le direzioni, e fra l’altro ci spinge a comperare riviste in cui si raccomanda di evitare l’obesità e si insegna a proteggere la salute. Il mercato vende libri contro il consumismo e contro il capitalismo, cioè contro il mercato stesso: li propaganda, se appena fiuta che i consumatori li desiderano. Favorisce le attività lucrative a scapito delle gratuite, ma a ben vedere le gratuite, per essere compiute bene, quasi sempre esigono esse pure un contorno commerciale: si può ammirare un tramonto senza spesa, ma soltanto se si rinuncia alla macchina fotografica per immortalarlo, all’automobile per recarsi nel luogo dove la vista è migliore, ecc.

Come si vede, qui c’è un ribaltamento della ‘teoria critica’ che, però, al pari di questa, non consente un discorso più articolato sul consumismo culturale di massa. Negli ultimi decenni, il crucifige ha trovato nuovi argomenti e nuove alleanze nel filone dei sostenitori della ‘decrescita’ e nella loro filosofia verde – il riferimento privilegiato, ovviamente, è a Serge Latouche – ma anche agli apologeti non sono mancati nuovi, convinti, paladini – il riferimento, qui, è alla scuola liberista dell’Istituto Bruno Leoni.
Eppure anche se l’anticonsumismo è una pianta sempre verde e sempre capace di attivare il suo avversario ideologico, esso sembra ormai relegato in una dimensione ‘a parte’ – si direbbe quasi ‘fondamentalista’ – dell’universo democratico progressista. I Latouche, i Bauman, le Spinelli ricordano, per certi versi, i francescani del Medio Evo e dell’età moderna: un ordine religioso che si ispira ai valori forti e antichi che hanno fondato l’istituzione ma che l’istituzione, dovendo fare i conti col mondo e con le sue realtà ineludibili, non può, pour ainsi dire, ‘prendere alla lettera’. In altre parole, le tematiche anticonsumistiche non entrano nel dibattito politico tra ‘destra’ e ‘sinistra’, non ispirano i programmi elettorali né condizionano l’agenda di governo.
A mio avviso, ciò si deve a un cambiamento (senza esagerazione) epocale della natura e delle strategie della vecchia sinistra che può essere messo a fuoco se si riflette su un fatto non poco emblematico. Un tempo, negli anni della mia giovinezza, quando, nelle sezioni politiche del PSI (non parliamo di quelle del PCI dove il termine ‘socialdemocratico’ era un insulto) si faceva l’elogio della Svezia e del modello assistenziale e previdenziale messo in piedi dai socialdemocratici scandinavi si veniva regolarmente contestati: «ma è socialismo quello?», «si è posto termine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo?». Oggi, forse, anche tra i seguaci di SEL un’obiezione del genere sarebbe impensabile. «Magari avessimo anche noi il tenore di vita di svedesi, norvegesi, danesi!», ci verrebbe detto.
Cos’è accaduto? È accaduto che, anche in seguito allo choc suscitato dalla caduta del Muro di Berlino, la sinistra non si batte più per una ‘umanità nova’ ma per estendere a tutti – o almeno ai ceti e alle classi che rappresentano il suo serbatoio elettorale – le benedizioni del Welfare State. Nelle pagine culturali, i suoi intellettuali organici (ce ne sono ancora) esaltano il ‘diverso modello di sviluppo’ che dovrebbe riformare (le famose ‘riforme di struttura’ pensate dal social-azionista Riccardo Lombardi) se non mandare in pensione il capitalismo disumano e acquisitivo, ma nelle pagine politiche leader di partito e sindacalisti si pongono il problema, assai più impellente e drammatico, di come far… ripartire i consumi. Il conflitto sociale, ormai, sembra riguardare non i modi della produzione (l’assetto imprenditoriale, l’orientamento al mercato e al profitto) ma l’equa distribuzione di ciò che viene prodotto. È come se si rivendicasse il diritto a ingrossare lo ‘sciame’ di cui scrive Bauman.
Uno dei primi a percepire il passaggio dalla contestazione del mondo borghese alla richiesta di rendere disponibili per tutti i beni materiali e culturali sfornati da quel mondo, fu Pier Paolo Pasolini:

È cominciato – scriveva nell’articolo Sanremo: povere idiozie, uscito sul «Tempo» il 15 febbraio 1969 – ed è finito il Festival di Sanremo. Le città erano deserte; tutti gli italiani erano raccolti intorno ai loro televisori. Il Festival di Sanremo e le sue canzonette sono qualcosa che deturpa irrimediabilmente una società. Quest’anno, poi, le cose sono andate ancora peggio del solito: perché c’è stata una contestazione, seppur appena accennata, al Festival. Ciò che si contesta sono infatti i prezzi dei biglietti per ascoltare quelle povere creature che cantano quelle povere idiozie: e si protesta moralisticamente contro il privilegio di chi può pagare il prezzo di quei biglietti. Non ci si rende conto che tutti i sessanta milioni di italiani, ormai, se potessero godere di questo famoso privilegio, pagherebbero il prezzo di quel biglietto e andrebbero ad assistere in carne e ossa allo spettacolo di Sanremo. Non è questione di essere in pochi a poter pagare quelle miserabili ventimila lire ma è questione che tutti, se potessero, pagherebbero. Tutti, operai, studenti, ricchi, poveri, industriali, braccianti…

Sono parole qui riportate non per la loro effettiva capacità di descrivere l’Italia degli anni del boom economico (alquanto dubbia), ma per la loro riproduzione fedele di uno stato d’animo caratterizzato da una profonda disillusione.
Pasolini, da comunista, aveva creduto nel proletariato come portatore di una nuova civiltà in grado di ridare all’uomo la padronanza del proprio destino e la possibilità di realizzare la propria natura – una civiltà che avrebbe dovuto salvaguardare i momenti più alti di quelle che l’avevano preceduta e rendere le opere Sofocle, di Dante, di Shakespeare, di Tolstoj ‘patrimonio dell’umanità’ e, quindi, disponibili per tutti i ‘figli della Terra’. Di qui la denuncia dell’‘evasione’, del disimpegno, del nuovo panem et circenses con cui un capitalismo sempre più povero di eticità e sempre più intimamente ‘ateo’ distoglieva le masse operaie e contadine dai problemi seri del lavoro e dell’esistenza, degradandole a folle confuse e indifferenziate di consumatori e di frequentatori di stadi e di cinematografi.
Neppure Pasolini, però, nella sua critica feroce aveva raggiunto la potenza di fuoco di uno dei capolavori di Federico Fellini, Ginger e Fred (sceneggiatura dello stesso Fellini con Tonino Guerra e Tullio Pinelli). Intervistato, il regista aveva detto:

Allora cosa posso dire di Ginger e Fred? Forse che ancora una volta è un film sullo spettacolo, visto però attraverso il mondo della televisione, questo grande deposito, una mastodontica arca ricolma, rigurgitante, traboccante di tutti i materiali di cui lo spettacolo si è sempre nutrito, le convenzioni, gli stilemi, i messaggi, gli ammiccamenti, la rutilante seduzione, una specie di grande specchio andato in frantumi che conservi in ogni scheggia una porzione di quelle infinite realtà che vi sono riflesse da quando qualcuno ha deciso di rappresentarsi, esibirsi, intrattenere’, fingere, mentire, ingannare. Ma l’inganno è quello dell’illusionista, richiesto, accettato, applaudito; è l’impostura dei prestigiatori, ha la malia ipnotica dei suoni e delle parole, l’incantesimo delle luci e del buio, la voluttà dell’esibizione, la magia del magnetismo. Tutto però convogliato dentro un tubo catodico, travolto in una lattigine palpitante, che si fa schermo acceso nelle case, ineluttabili oblò attraverso cui presenziare a una vita ipnoticamente parallela di eventi e di emozioni.
Nel film la pubblicità – dei prosciutti Lombardoni – diventava l’incubosa metafora della vita del nostro tempo, un’enorme pianta carnivora che ingurgitava tutto, trasformando tutto in spettacolo e intrattenimento: dal vecchio ammiraglio (rimbambito) eroe di guerra al furbo fratacchione capace di levitarsi, dal trans pietoso che visita i carcerati ai medium che promettono il contatto con l’aldilà, dai nanetti ballerini allo scrittore di successo che firma autografi (e chiede alle bellone il numero di telefono). L’opera cinematografica, che è del 1985, sembra davvero l’ultimo fuoco di una intellighenzia terrorizzata da un avvenire diverso ma non meno inquietante da quello profetizzato da George Orwell nel suo celebre romanzo distopico 1984.
Già negli anni settanta, tuttavia, le provocazioni di Pasolini avevano suscitato le profonde riserve di non pochi studiosi, accademici e non. Vanno ricordati, a questo proposito, gli articoli scritti da Luigi Firpo – e poi raccolti nella sezione «Pasoliniana» dei suoi Cattivi pensieri (ed. Mondadori, 1983) – nei quali la ‘critica sociale’ elaborata dal poeta-regista-saggista finito tragicamente sul litorale romano, veniva sottoposta al vaglio di un solido buon senso, caratteristico del grande storico torinese delle dottrine politiche, che per diversi anni deliziò i lettori de «La Stampa» con le sue preziose piccole di saggezza. Commentando le accuse rivolte da Pasolini alla DC, rea diaver «degradato antropologicamentegli italiani»e di aver consentitol’esplosione di unaselvaggiacultura di massa e dei suoi mezzi di comunicazione, Firpo faceva rilevare (è l’agosto del 1975) che

Quando parla di «degradazione antropologica» Pasolini allude alla civiltà dei consumi, alla vorticosa produzione del superfluo, che distrugge al tempo stesso la natura e i valori umani. Qui un fenomeno mondiale, collegato all’incremento del reddito pro capite, all’identificazione incolta del benessere con lo spreco e con i vani simboli di promozione sociale, viene addebitato alla Dc, come se davvero il suo potere giungesse a tanto e senza riflettere sul fatto che un’inversione di tendenza sarà possibile solo mediante una profonda quanto improbabile rivoluzione (o rieducazione) culturale’ oppure mediante una drastica repressione dei consumi imposta dalla crisi mondiale o da una dittatura, sia pure moralistica.
Lamentare l’esplosione «selvaggia» della cultura di massa proprio mentre si denuncia il servilismo della pseudo-cultura televisiva, è non solo contraddittorio, ma, nell’intimo «reazionario». Una cultura non selvaggia è una cultura pianificata, una cultura asservita; anche l’ultimo settimanale languoroso, scandalistico-pornografico è pure un progresso per chi non leggeva che didascalie di santini o cartoline precetto. Meglio una cultura di massa selvaggia ma libera, che una cultura «civilizzata» dai ministri e dalle censure.

Come si vede da queste citazioni, però, sia Firpo, un liberaldemocratico pensoso e problematico, scettico e realista, come tutti i grandi studiosi di Machiavelli e della ragion di Stato, sia lo stesso Ricossa, non erano entusiasti del consumerism. Sempre scrivendo di Pasolini, il primo era disposto a qualche significativa concessione:

Condivido appieno—scriveva—la ripugnanza profonda per questo sperpero volgare, per l’oggettivazione triviale d’una presunta e illusoria felicità, per questo dissipare tempo e risorse, lavoro e attenzione in cose inutili e frivole, quando non sono addirittura degradanti o segnate dalla turpitudine ultima e suprema, che è quella dell’idiozia.

Il consumismo andava «scrutato e notomizzato senza passione, con occhi di scienziato» nella consapevolezza, però, che il progresso non si ferma e che è impossibile «tornare alle diligenze a cavallo, al secchio del pozzo, all’olio della lucerna, alla processione del santo patrono».
Più indulgente, lo si è visto, Ricossa ammetteva la «volgarità di certi programmi televisivi» nonché la scorpacciata consumistica che favoriva l’obesità della mente.
In entrambi gli studiosi, però, the case for consumerism era formulato in termini di «male minore». Una cura drastica contro il consumismo culturale avrebbe comportato, per Firpo, l’inaccettabile censura di Stato – degli ultimi film di Pasolini, ad esempio, che lo facevano inorridire; e, per Ricossa, la scomparsa dalle librerie delle riviste e dei libri in cui veniva criticato e diffamato il mercato.
Non era detta, però, l’ultima parola giacché, a partire dagli anni ’80, all’interno del variegato e complesso arcipelago della sinistra, sembra dileguarsi l’idea del «male minore». E se i prodotti di largo consumo, i film di cassetta (come si diceva un tempo, con malcelato disprezzo), le canzoni di Sanremo, non fossero un ‘male’ ma semmai un ‘bene’ e, si conceda pure, ‘minore’?
Già nel 1980 la distinzione pasoliniana tra cultura alta (alla quale andava aggiunta la cultura tradizionale delle campagne, genuina perché non contaminata dai modelli consumistici) e cultura qualunquistica e plebea, avrebbe trovato, nell’ambito della sua famiglia ideologica, una convinta (e devastante) rimessa in discussione. Gianni Borgna, l’assessore alla Cultura del Comune di Roma per ben tredici anni, pubblicava in quell’anno La grande evasione. Storia del festival di Sanremo, inizio della «lunga marcia» verso la fiera del consumismo culturale, all’insegna del nazional-popolare. La Sanremo del 2014 è stata in un certo senso il coronamento della strategia di Borgna: i due conduttori, Fabio Fazio e Luciana Littizzetto, con il loro impegno politico trasferito da Che tempo che fa al palcoscenico dell’Ariston (v. il monologo della Littizzetto), rispetto ai loro predecessori, da Nunzio Filogamo a Pippo Baudo, sembravano provenienti da un altro pianeta.
Politicizzazione del Festival? Certo ma all’insegna della ‘leggerezza’ e della rinuncia a quell’indottrinamento studiato e faticoso che, ad esempio, grazie all’impegno e alla dedizione alla causa degli ‘intellettuali organici’, si respirava nei teatri delle grandi città, che dedicavano intere stagioni ai drammi didattici di Bertolt Brecht, o nei locali cinematografici nei quali si costringevano i ‘compagni della base’ a sorbirsi per intero i cicli sul neorealismo italiano, le grandi opere di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn o i film sovietici del ‘disgelo’. (Quale universitario degli anni ’60 non ha fatto l’esperienza del CUC?)
Nel passaggio dalla qualità (creiamo la ‘città nuova’) alla quantità (il diritto al consumo non dev’essere riservato a pochi), il problema diventa quello di non essere esclusi dai supermarket, dai mass media, dai luoghi di ritrovo comunitario, dai megaraduni dei fans. La parola d’ordine è assecondare i gusti della gente: ci si guarda bene dall’assumere arie di sufficienza o atteggiamenti elitari dinanzi all’uomo della strada – in questa ottica rientra la riabilitazione della commedia erotica all’italiana, fatta da Walter Veltroni con Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, per il quale il film aveva «aiutato a sconfiggere integralismi bacchettoni e a dislocare verso equilibri più avanzati il comune senso del pudore» – ma si punta a riplasmare il ‘senso comune’ del telespettatore con sermoncini sociali edificanti, condendo le «povere idiozie» canore, disprezzate (non sempre a torto) da Pasolini, con inviti alla tolleranza del diverso, con pensieri rivolti alla fame nel mondo, con rivendicazioni dei diritti sociali. Mangiafuoco e Bengodi sono sempre lì ma a Mangiafuoco viene dato il compito di tradurre per le masse la filosofia del ‘diritto ad avere diritti’ in slogan facili, persuasivi, ammiccanti. Lo spettacolo continua come ieri, come domani, ma nelle pause del ballo a corte, tra una danza e l’altra, si consente a fra Galdino di fare la questua e di ricordare che al mondo ci sono anche i poveri (e, ai nostri giorni, gli extracomunitari che sbarcano sulle coste siciliane, i senza tetto, i senza impiego, i senza famiglia etc.). Vien quasi da pensare all’Italia fascista, un paese tutt’altro che totalitario (con buona pace di qualche storico «con poco cervello», come avrebbe detto Benedetto Croce) dove, in ampie zone della vita sociale, tutto continuava come prima… ma in camicia nera.
Paradossalmente, quando c’erano i partiti ideologici, al di fuori del lavoro, si trovavano lo spazio dell’impegno etico-politico (nella sezione di partito o nella parrocchia) e lo spazio dell’evasione – ad es. dei film di Totò e poi di Franchi e Ingrassia –, della partita e della scampagnata fuori porta. Venuti meno i sacerdoti della ‘religione politica’, tramontata la distinzione tra l’alto (tra la grande cultura, ora appannaggio dei pochi, un domani possesso di tutti) e il basso (gli spettacoli ricreativi che fanno dimenticare gli affanni quotidiani), lo spazio sociale si è per così dire omogeneizzato, avendo tutti gli stessi gusti, comprando tutti i cd di Arisa e del compianto Lucio Dalla. In mancanza di altri piani di incontro è a Sanremo che si trasferisce quel conflitto per il potere, che, ancor più della differenza sessuale, pare destinato a sopravvivere ancora a lungo.
Ai nostri giorni la politica non ha più toni fondamentalisti come in passato ma s’infila, a poco a poco e inavvertitamente, dovunque: una volta, tra gentiluomini con idee diverse, si stabiliva il tacito patto di ‘non parlare di politica’ per non doversi trovare in disaccordo e lasciarsi male. «Mettiamo da parte Togliatti o Malagodi, Almirante o Nenni e parliamo, invece, di Inter-Juventus, del Giro d’Italia, del Festival di Sanremo». Allora si poteva, ma oggi, se si parla di Sanremo, viene voglia di elogiare o di lamentarsi della coppia Littizzetto/Fazio e del loro aiutante di campo Maurizio Crozza, per la loro capacità di ‘parlare al cuore della gente’ (come pensano quanti si trovano sulla loro lunghezza d’onde ideologica) o per aver politicizzato il Festival in una sola direzione (come ritengono, invece, quanti si divertono poco se viene messo alla gogna il Cavaliere).
In realtà, si sdogana il ‘consumismo culturale’ ma pagando il prezzo della scomparsa del terreno dell’evasione, del puro divertissement di chi vuole trascorrere un’ora di svago senza porsi il problema dei ‘diversi’, dei governanti corrotti, delle vittime del disagio sociale e dell’esclusione. È come dire: conserviamo Sanremo, dal momento che è nazionalpopolare (ma è poi vero?) ma diamogli una verniciata di republicanism, facciamone un’occasione per vendere i nostri programmi elettorali.
Quando tanti anni fa, alla Scala, Maurizio Pollini, prima del concerto, lesse una dichiarazione fortemente critica della guerra del Vietnam e di condanna della politica di Washington, furono molti a indignarsi tra gli spettatori: avevano pagato il biglietto per ascoltare le suonate per piano di Chopin non per assistere a un comizio! La reazione, almeno per un liberale, era condivisibile però il gesto di Pollini aveva una sua terribile serietà: interrompeva lo spettacolo ma non confondeva i piani di discorso. La protesta era protesta e la musica metaforicamente usciva dalla sala per farvi rientro a lettura terminata del comunicato. In quegli anni, la militanza ideologica era divisiva e coinvolgente e non esitava a far sentire la sua voce in una ‘terra straniera’, contando sullo ‘scandalo’ e sul sicuro impatto mediatico. Quando non si scontrano più visioni del mondo in mortale conflitto ma ci si ritrova tutti in una piazza in cui s’incontrano uomini e partiti di ogni colore, la tentazione di approfittare di un pubblico assai più ampio di quello delle ‘subculture’ di appartenenza (comunista, cattolica, ‘nostalgica’) diviene irresistibile. Si cerca allora di smerciare le proprie opinioni politiche con battutine e con sketch comici: alla rappresentazione drammatica (Pollini) subentrano lo spettacolo di varietà, il sorriso complice e l’ironia di chi affetta di non prendersi troppo sul serio. In tal modo, l’indignazione di chi non ha avuto l’opportunità di salire sul palcoscenico dell’Ariston per fare anche lui un po’ di propaganda gratuita a beneficio della sua pars politica, è in parte ridimensionata dal pensiero che, in fondo, ‘è un gioco’ e che del monologo della Littizzetto non si ricorderà più nessuno.
È preferibile la panpoliticizzazione lieve e irridente di oggi, che però non lascia de facto spazi all’apolitica, o la panpoliticizzazione di ieri che, suo malgrado, doveva arrestarsi dinanzi al diritto all’evasione, disprezzato quanto si vuole ma ben difeso da un popolo intenzionato a ‘divertirsi e basta’? In un’ottica liberale, la risposta è scontata: l’esproprio del tempo libero, dell’evasione, è assai poco rassicurante e, sui tempi lunghi, pericoloso per quella pluralità dei valori di cui vive la ‘società aperta’. In uno dei suoi non rari momenti liberali, Bobbio chiedeva di sospendere l’impegno politico almeno la domenica: non aveva previsto il rischio di avere una «Settimana di sette feste, | questa è Napoli, punto e basta!», per citare i versi (non certo divini) del paroliere Enzo Bonagura.
«Domenica è sempre domenica», tutto è «domenica in»: si scherza, si ride e si sorride, ci si diverte, si prendono in giro i potenti di turno (per lo più senza par condicio) ma intanto si prosegue ‘con altre armi’ una campagna politica che da noi non conosce turni settimanali e vacanze estive.
Un’ultima considerazione. Lo sdoganamento del consumismo culturale, la riabilitazione dei film, che, a differenza di quelli colti e impegnati, fanno registrare un alto numero di incassi, e delle canzoni più popolari e di successo, prelude davvero a un’analisi seria e pacata della ‘cultura di massa’? Quando si sente parlare di Sanremo, in maniera puntuale e documentata, è stato scritto, si ha come l’impressione di ascoltare qualcuno che esamina la gondola di plastica – ‘ricordo di Venezia’ – come se stesse discettando su una scultura di Michelangelo. Si tratta, peraltro, di un’osservazione semplicistica e dozzinale, se si considera che si sta sul piano della scienza non in virtù dell’oggetto che si intende esplorare ma in virtù dell’apparato metodologico di cui ci si serve e, tuttavia, resta da chiedersi fino a che punto la filologia – i documenti portati alla luce, le tradizioni orali raccolte, le testimonianze – applicata a campi artistici in senso lato che un tempo facevano arricciare il naso ai severi custodi dei saperi alti, abbia davvero reso giustizia al consumerism culturale. Temo che, in realtà, la ‘spazzatura musicale’ di ieri stia acquistando oggi una dignità intellettuale che costituisce il ribaltamento di un pregiudizio (un ribaltamento spesso strumentale alla conquista di territori elettorali, come si è ipotizzato sopra: «volete il rock e la musica pop? Ve li diamo anche noi, venite al Festival dell’Unità!») ma che non si traduce – né può tradursi – in un ponderato giudizio di valore.
Faccio un esempio: alcuni mesi fa, in una storica e ridente cittadina della Riviera ligure di Ponente, nel corso di una tavola rotonda – all’interno di uno dei tanti festival estivi che ormai impazzano nella penisola – la dirigente di una delle più prestigiose case editrici italiane, si era vantata di aver fatto apprezzare al suo diretto superiore – un membro dell’aristocrazia intellettuale piemontese, radical chic e molto impegnato nella sinistra non riformista – le canzoni… di Bobby Solo. Come un tempo gli storici erano convinti – almeno fino alla svolta segnata dai lavori di François Furet – che la Rivoluzione francese dovesse venire accettata en bloc, così la gentile signora engagée, sembrava ritenere (non si sa se in buona o in mala fede), che anche il continente Sanremo, dovesse venir preso en bloc, senza andare troppo per il sottile e senza ipotizzare improbabili differenze di qualità. Sennonché sta proprio qui il grosso equivoco: siamo sicuri che le produzioni artistiche rivolte al grosso pubblico e intese, soprattutto, a far guadagnare l’imprenditore che vi ha investito i suoi capitali puntando ad esempio, nel caso della mitica MGM, sul successo sicuro di un copione come Cantando sotto la pioggia (1952) sulla competenza del regista (Stanley Donen e Gene Kelly) e sulla bravura degli attori (Gene Kelly, Debbie Reynolds, Donald O’Connor etc.) – stiano tutte sullo stesso piano?
Il consumismo culturale, in realtà, non è affatto assimilabile alla notte schellinghiana in cui tutte le vacche sono nere ma presenta una gamma assai estesa di ‘merci’ che, oltretutto, costituiscono documenti imprescindibili per comprendere i valori di un popolo, gli atteggiamenti collettivi, i mutamenti dell’opinione pubblica. (L’esempio classico è quello dei pellirosse che, nei vari periodi della storia americana, vengono raffigurati come natura selvaggia da cui difendersi o come alterità culturale da comprendere e rispettare).
Nell’età d’oro del western americano – che è poi la stagione del grande cinema d’oltratlantico – i film diretti da John Ford, da Anthony Mann, da Howard Hawks, per limitarci a questi grandi maestri della macchina da presa, erano sicuramente manufatti commerciali, sfornati a ritmo continuo, da quella mastodontica fabbrica dei sogni che era Hollywood, ma potevano dirsi per questo, espressioni della irrimediabile volgarità della mass society? E, per converso, i film di Louis Malle, di Michelangelo Antonioni, di Jean Luc Godard dovevano considerarsi, per il fatto di rivolgersi agli intellettuali e alla borghesia colta e raffinata, espressioni della ‘cultura alta’? Il consumo d’elite sta a quello di massa come il raffinato prodotto artigianale sta a quello fatto in serie? Pensare alla ‘democrazia educatrice’ – idealizzata dai ‘liberali aristocratici’ e dalla sinistra umanistica e mazziniana – in grado di elevare il livello di sensibilità e la competenza estetica del pubblico dei cinespettatori o dei telespettatori, significa non fare i conti con la rivoluzione epocale che, da almeno un secolo, ha investito l’Occidente. L’allargamento del suffragio fino a diventare universale e a ricomprendere l’‘altra metà del cielo’, ha dissolto, sia a livello etico che a livello estetico, quei valori tradizionali – da borghesia ‘vittoriana’ – che in passato suggerivano sicuri e condivisi codici di condotta. (È l’obiezione che è stata rivola a Karl Popper: in nome di quale morale accettata da tutti opereranno gli addetti alla selezione dei programmatori dei palinsesti televisivi?). Mai come oggi il mondo è stato «pieno di dèi» sicché la convivenza sociale sembra essere diventata possibile soprattutto se ci si accorda sulle regole e sulle procedure, rinunciando a far valere, imponendoli a tutti, i propri valori – tradizionali o progressisti che siano. A ciò si aggiunga che l’era delle masse è anche quella della sacralizzazione dei diritti dell’individuo, che vuole «vivre sa vie» senza dover rendere conto alle tradizionali agenzie spirituali di controllo (‘il corpo è mio e me lo gestisco io’).
Nell’era del trionfo della democrazia la merce culturale che il ‘popolino’ (l’uomo qualunque disprezzato da Pasolini) apprezza tanto – perché vi vede riflessi il suo piccolo mondo, i suoi sentimenti, i suoi desideri repressi, la sua quotidianità – non assurge certo a valore etico o estetico, in virtù del suo ‘alto gradimento’, ma lo stesso anche per l’inverso: non per il fatto di venire apprezzato e consumato con mucho gusto dalle masse un film, una canzone, un modo di vestire, un ballo, diventano qualcosa di scadente, un ‘disvalore’. Occorrerebbe essere molto cauti prima di parlare di ‘immondizia’ ed essere altrettanto critici e ‘controllati’ prima di trasformare l’immondizia in un bouquet di fiori.
Gli anticonsumisti riguardano lo sciame, che si riversa nei supermarket, come una indistinta massa damnationis – alla quale si rassegnano se tolleranti e liberali e alla quale si ribellano se sono in guerra contro il mercato e i suoi idola –;i consumisti – anche i convertiti dell’ultima ora, che non hanno nulla a che fare col mondo di Sergio Ricossa – fingono di ritenere che se la gente desidera un prodotto, in esso ci sarà pure del buono e, pertanto, è giusto venirle incontro, se possibile con misure welfariste. Non ci siamo. Come c’è democrazia e democrazia, così c’è consumo e consumo. Del resto, oggi non vediamo nel romanzo d’appendice dell’Ottocento un contenitore estetico (scadente) per il fatto di venir letto dal commesso di negozio e dalla portinaia dei quartieri alti. Il più grande scrittore francese dell’epoca, Honoré (de) Balzac, per pagarsi i debiti, ne scriveva in continuazione, senza preoccuparsi della sconcertante banalità delle trame: i suoi prodotti culturali di massa, però, attingevano profondità esistenziali e dipingevano affreschi sociali così veritieri da far definire la sua opera, la comédie humaine. Mi viene in mente il caso Balzac ogni volta che rivedo un film di John Ford e penso alla curiosa e divertente intervista che il vecchio scontroso rilasciò al suo giovane collega e ammiratore, Peter Bogdanovich. Alla domanda se si considerava un grande regista, il vecchio Jack, come lo chiamavano gli amici, rispose in modo provocatorio: «no, i miei western non sono gran cosa, li ho girati soprattutto per fare soldi». Lascio immaginare al lettore cosa ne avrebbe dedotto ieri Theodor W. Adorno – probabilmente avrebbe aggiunto un grosso paragrafo a quel capitolo sull’industria culturale che è decisivo per la comprensione della Dialettica dell’illuminismo – e come una rispostaccia così irridente potrebbe oggi rafforzare nelle sue tesi Zygmunt Bauman, ossessionato dalla dittatura del mercato e dalla degenerazione antropologica che trasforma gli esseri umani da produttori consapevoli in consumatori eterodiretti.

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