Convegno – Conflitto e Immagine. Il conflitto tra narrazione e media: Dissoluzione dell’autore conflitti?

Roma, 26-27 novembre 2003
Palazzo de Carolis, Sala Minerva – Via del Corso, 307

La pittura non è fatta per decorare gli appartamenti.
È uno strumento di guerra
offensiva e difensiva contro il nemico
(P. Picasso)

I testi fondativi della nostra civiltà, la Genesi, l’Iliade, l’Odissea, attestano che l’intreccio di base di ogni narrazione è lo stesso intreccio che lega i contendenti in un conflitto: tra uomo e Dio, tra fratelli, tra nemici.
È il conflitto, che costituisce come realtà l’umano, che si offre come materiale di narrazione reiterata e di simbolizzazione permanente? Sono le narrazioni e le simbolizzazioni che ci guidano alla comprensione di noi stessi e degli altri, imponendo il conflitto come chiave indispensabile di lettura di ciò che siamo? Che ruolo ha la rappresentazione nell’innesco dei conflitti, nella loro amplificazione e magari nella gestione costruttiva dei medesimi? Quali sono gli elementi caratteristici del linguaggio del conflitto, in particolare quando si tratti di un conflitto linguistico per eccellenza come quello politico?
Tutto è favola, ha teorizzato Nietzsche: e questo può voler dire che le lotte che noi crediamo di cogliere nel reale sono appunto favola, modi del nostro pensare che possiamo leggere nel loro terribile potere e nelle loro straordinarie potenzialità. E può voler anche dire che le favole sono cose terribilmente serie.

  • Il conflitto come trama originaria della narrazione
  • Il conflitto per immagini
  • Il conflitto nell’epoca della comunicazione di massa
  • Il linguaggio del conflitto politico

CON IL PATROCINIO DEL SENATO DELLA REPUBBLICA E DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO

La riflessione proposta ad autorevoli figure della cultura e dei media racchiude nel titolo volute ambiguità e provocazioni. I conflitti che stiamo attraversando e la loro rappresentazione suggeriscono certo una considerazione aggiornata sul ruolo dei media in quanto spettatori, mediatori e parte in causa di essi. Uno sguardo più ampio segnala però che, nella storia, i conflitti si sono fissati in narrazioni, poi decantate in tradizioni ed assi di identità delle rispettive culture.

Parlare di conflitto tra narrazione e media vuol dire indagare i meccanismi della rappresentazione mediatica, il ruolo del giornalista come “narratore” nel sistema di formazione della notizia, ma anche il ruolo fondativo del narratore tradizionale nei tempi più serrati dei media di oggi. Vuol dire alludere alla tensione tra “narrazione” e informazione pura, drammatica in presenza di guerre ricorrenti, ma anche chiedere il rispetto del diritto del pubblico ad una loro corretta rappresentazione. La provocazione più forte, però, è la domanda sulla dissoluzione dell’autore stesso, come possibile “danno collaterale” del frastagliarsi di tempi e ruoli nella filiera industriale della notizia.

Così è nata la collaborazione tra soggetti assai diversi: la Fondazione Nova Spes, che ha sviluppato nel 2003 un progetto di ricerca sul conflitto; e l’ISIMM, che da anni è impegnato nello studio dei cambiamenti nei mezzi di comunicazione.
Le domande che titolano le sessioni – con il reiterato ed incalzante “Chi?” – non anticipano risposte, ma vogliono evitare un attardarsi su quelle più ovvie e convenzionali. Ed è proprio la diversità dei nostri due percorsi a promettere interrogativi e risposte non scontati su questioni di estrema attualità e complessità.?

Laura PAOLETTI, Segretario Generale Fondazione Nova Spes
Enrico MANCA, Presidente ISIMM


Atti:

Introd.Laura Paoletti

Prima ancora di entrare nel merito, ringrazio il Presidente Manca che – con la sua impeccabile cortesia – ha consentito ad invertire l’ordine alfabetico, doveroso, in una partnership di scopo come la nostra. Che sia io a prendere per prima la parola corrisponde anche all’opportunità di chiarire come questo fortunato momento di collaborazione con ISIMM si innesta nella storia di Nova Spes, ed in particolare nell’agenda di ricerca che ha segnato il nostro 2003 e si proietta sul 2004: pensare il conflitto – costruire la pace.
La Fondazione, i cui tratti essenziali abbiamo preferito affidare ad un breve documento in cartella, svolge da tempo ricognizioni a largo raggio su temi di convergenza fra cultura, economia e vita civile. Così è stato per il processo di costruzione democratica in Est Europa inserito nel piu’ ampio tema della globalizzazione, così è stato per le questioni legate alla possibilita’ di uno sviluppo mondiale raccordato, così per il dibattito sul determinismo e la complessità: alcuni fra i temi che più direttamente hanno preluso all’attuale impegno sul Conflitto.
Impegno che, è bene dirlo subito, corre sull’onda dell’11 settembre, ma non si propone portati diretti al tema politico-strategico o militare, né tantomeno intende limitarsi ad esso.
Quello che ci ha mossi è stato il senso di asfittica censura con il quale, dopo il giorno delle torri, gran parte delle leadership e delle opinioni pubbliche hanno reagito sul piano verbale. Abbiamo colto, in quelle reazioni, una riduzione arbitraria del perimetro concettuale che inerisce al termine “conflitto”. Abbiamo assistito al prevalere di un irenismo verbale – o di un machismo muscolare – che si ponevano di traverso ad ogni sforzo di analisi matura dei fenomeni. E che, peggio ancora, imbrigliavano qualsiasi tentativo di condivisione culturalmente costruttiva del nuovo scenario e delle nuove domande che esso pone.
Domande, certo, ben più evidenti ora; quando la dimensione violenta di uno scontro globale impone il suo pedaggio anche alla nostra gente. Anche se, in cambio di quel terribile prezzo, ci consegna una comunità italiana ben più avanti delle attese, ben più salda delle troppe fluttuazioni strumentali esibite dalle tante “opinioni organizzate”.
Già con il senno di allora tuttavia, a fine 2002 ci parve chiaro che il dibattito trascurava la considerazione del potenziale evolutivo del conflitto quando esso sia un confronto tra “diversi”che, mantenuto sui contenuti, puo’ preludere ad una visione piu’ ampia in cui ciascuno si senta rappresentato. Ne restava in primo piano solo l’effigie sinistra dello scontro, della conflagrazione violenta. E neppure di quella, come abbiamo dovuto imparare nel frattempo, si riuscivano a cogliere tutte le rinnovate dimensioni che ci sorprendono oggi.
Innanzi tutto, ci dicemmo, serve rielaborare e distinguere i conflitti almeno secondo lo status riconosciuto delle controparti: secondo, cioè, che si tratti di avversari in relazioni che si vogliono continue e fruttifere; oppure di nemici, che si propongano un definitivo prevalere dell’uno sull’altro. O addirittura, gradino ulteriore di questa scala, di quella controparte che non condivide – a differenza del nemico – neppure regole e logiche dello scontro.
Ma non solo: si tratta, a nostro avviso, di radicalizzare la riflessione sul conflitto, vedendolo nello spazio della costruzione e dell’affermazione dell’identità personale. O meglio: di ciascuna identita’. E si tratta di vedere se una elaborazione attenta quanto spregiudicata di tutte le fattispecie in cui può aver luogo il conflitto possa favorire la costruzione della pace. Che, è appena il caso di dirlo, non si propone qui come semplice negazione del conflitto: al contrario, come il tentativo di assicurare ai conflitti, intesi come confronti, una cornice che ne permetta il dispiegamento fisiologico, di pari passo con quello delle identità e dei legittimi interessi sottesi ad esse.
Si tratta in definitiva di pensare i momenti del processo con lo sguardo a quello che resta il nostro fine: promuovere lo sviluppo globale dell’uomo e della società.
Lo spazio di indagine più conforme alle nostre competenze escludeva analisi in senso tecnico di temi come conflitto e risorse, conflitto e demografia, conflitto e sistemi politico-ideologici, mentre recuperava questi temi all’interno di contesti più ampi, che avvicinavano il mercato alla psicologia, l’immagine all’identità collettiva, affrontando così in modo più complesso la questione delle regole entro cui i conflitti si danno e si compongono. In altre parole: ci saremmo occupati con particolare attenzione degli aspetti immateriali – degli intangibles – che si propongono come oggetti, fattori e contesti umani di conflitto.
Accanto al ruolo, parallelo e inscindibile, della narrazione nel costruirsi delle identità, altrettanto evidente, già in fase di impostazione della ricerca, è risultato il ruolo dell’industria culturale e dei media nella circolazione di quei fattori, nella individuazione di quei contesti: nella definizione stessa di quegli oggetti.
La riflessione ci consegnava – quanto alla multimedialita’ ed ai suoi sistemi – l’obbligo di un esame collocato, al tempo stesso, fuori dalle nostre competenze e al centro del terreno di ricerca. Raccolta una prima ampia rosa di questioni, abbiamo cercato una alleanza autorevole che permettesse di trasformarle in domande e di raccogliere sul campo elementi di risposta. L’incontro con ISIMM è risultato non soltanto naturale, ma subito segnato da forti complementarità e sintonie.
Proprio per questo non avverto il bisogno di addentrarmi negli aspetti complessivi del lavoro che ci attendiamo da questi due giorni, dei quali nessuno meglio del Presidente Manca potrà tracciare il terreno.
Vi sono tuttavia specifici elementi che, a costo di abusare della vostra attenzione, debbo sottolineare secondo lo specifico orizzonte culturale della Fondazione.
Perché è da quell’orizzonte che discendono le ambiguità riscontrabili nel titolo del nostro incontro, che ci attendiamo di poter sciogliere insieme.
“Il conflitto tra narrazione e media”: già la prima parte del titolo enuncia due possibili dimensioni di lettura. Da un lato propone di esplorare come si colloca e di quali processi si fa oggetto il conflitto – quello effettivamente conflagrato ed in corso, ma anche i molti altri di altro genere che si affacciano all’attenzione – quando gli eventi attraversano la filiera industriale dei mezzi d’informazione. E quindi gli effetti di selezione cui l’informazione pura – nel senso convenzionale dell’espressione – va incontro nell’assemblaggio redazionale, nella competizione per gli spazi in pagina o in palinsesto, nella rielaborazione “autorale” che la rende fruibile alle specifiche audiences di ciascun media.
Dall’altro, tuttavia, impone anche di censire il conflitto interno fra narratività tradizionalmente intesa e vincoli, format, esigenze temporali di una industria dell’informazione costantemente stretta fra le esigenze dell’attualità, della compattezza e del valore intrinseco dell’informazione e quella dimensione drammaturgico-narrativa che assicura il pathos grazie al quale le audiences più vaste “restano sintonizzate”. E garantiscono i risultati attesi sul piano industriale.
La domanda –“dissoluzione dell’autore?”- che conclude il titolo verte sull’area “auctor-auctoritas-autorevolezza”. L’ipotesi, che crediamo evidente già in questa sommaria formulazione, è che la complessità e la frammentazione dei canali e dei processi offuschino la percettibilità, e quindi la funzione, della figura autorale.
Come ciascuna delle parole che si utilizzano normalmente, così anche il termine «autore» suona del tutto chiaro, finché non si tenti di definirne con una qualche precisione il significato.
Per lo più tutti presumiamo di sapere cos’è – o meglio: chi è – propriamente un «autore». E, in base a ciò che per lo più crediamo di sapere, interrogarsi sull’«autore», nonché sulla sua possibile «dissoluzione», sembra fuori dal registro di una riflessione sul rapporto tra «conflitto» e «media», ossia sul modo in cui i mezzi di comunicazione, informando sui conflitti, concorrono a determinarne sedimenti ed esiti.
Un «autore» – sembra ovvio – è colui che, nel plasmare la propria opera, porta a sintesi tutti gli elementi che vi afferiscono: indipendentemente dalla natura di essi.
Non per questo non sapremo distinguere l’autore di teorema, da quello di un brevetto industriale, da quello di un libro o di un film. Ma nelle opere di ambito tecnico, e perfino scientifico, il prodotto vale di per sè: permette di soprassedere all’esame della figura autorale senza effettiva perdita di valore conoscitivo e pragmatico. Nella narrazione, invece, è proprio la figura identificabile,il tratto personale dell’autore a fornire chiavi autosufficienti – anche se mai definitive – per il compiersi del ciclo ermeneutico. Almeno nel senso che, nel caso di un autore identificato, la contestualizzazione biografica e storico-culturale di costui favorisce lo scattare della circolarita’ interpretativa fra le due enciclopedie implicite: quella che nell’autore soggiace all’opera e quella propria al fruitore.
E’ quando la dimensione autorale viene colta, infatti, che l’opera diviene compiutamente veicolo di senso. Talvolta, anche a prescindere dalla natura dei materiali che si assemblano in essa: il senso di Guerra e Pace, probabilmente, ci sarebbe accessibile anche se Bonaparte non fosse mai giunto fino a Mosca. Perchè ci basta intendere Tolstoi. Al contrario, La Certosa di Parma è ben difficile da immaginare fuori da quello specifico percorso storico in cui si rappresenta. Il viaggio dalla fronda illuminista, alle piane di Waterloo, alla cattedra episcopale trova rispecchiamenti anche nell’oggi: che le domande e le censure interiori di Del Dongo abbiamo ancora corso, poco importa. Restano attuali come questioni in sé .
E proprio Stendhal ci offre uno spunto di riflessione più interno al tema di oggi: che relazione fra il caleidoscopio di inquadrature soggettive scandite da Fabrizio nelle pieghe e nelle retrovie della grande battaglia e “il punto di vista di Dio” necessario a cogliere l’intreccio di errori, eroismi, tradimenti e disguidi che ne determinarono l’esito e il senso?
Per il ruolo che i mass media assumono nella formazione delle aspettative diffuse, per come incidono nei processi decisionali delle società democratiche, per come istituiscono leggende ed eroi, la questione non è di poco conto.
L’accostamento proposto dal titolo di questo incontro potrebbe perciò rappresentare il punto di partenza per reiterare l’atto d’accusa – ormai di rito – contro i mezzi di informazione, colpevoli di non essere sufficientemente «oggettivi», di “deformare” la realtà in funzione di interessi di parte, di muoversi, al modo degli «autori», sul confine incerto tra vero e falso. Invettive banali, che si traducono generalmente in accorati – quanto del tutto inutili – appelli al senso di responsabilità degli operatori, degli esperti e dei manager, perché si attengano alla realtà con uno scrupolo tanto maggiore quanto più la realtà è quella tragica – e purtroppo attuale – di un conflitto.
Nulla di più lontano dalle nostre intenzioni. Al contrario: la domanda sull’«autore» proposta a teorici e operatori dell’informazione vorrebbe suggerire la possibilità che il problema stesso dell’oggettività sia, a ben guardare, un falso problema. Ciò richiede, naturalmente, che si mettano in questione almeno alcune delle certezze consolidate relative tanto alla cosiddetta «oggettività», quanto alla figura dell’«autore».
Il senso comune investe tutto il proprio capitale di fiducia nei fatti, e per questo vorrebbe che ogni interpretazione poggiasse su fatti ben precisi: il che, entro certi limiti, è del tutto giustificato. Ma chi sancisce cosa è un fatto e cosa un’interpretazione? Chi è capace di distillare il nocciolo di oggettività dell’evento dalle sovrastrutture soggettive di colui che lo riporta? Domande che si fanno urgenti e drammatiche per culminare in una decisiva: è forse il conflitto un evento che per sua stessa natura rifiuta una descrizione neutrale e obbliga ad una presa di posizione? E, in tal caso, anche a prescindere dalla identificazione consapevole o emozionale con una delle parti in causa?
Ci vuole una fede molto salda nell’esistenza stessa di una realtà che si nasconde dietro il paravento di quello che se ne racconta, per ritenere che imparzialità, neutralità e oggettività siano attributi plausibili dei mezzi di informazione. Una fede che può riuscire persino pericolosa, quando rassicurando sopisce ; meglio forse prendere consapevolezza della propria inevitabile parzialità, salubre complemento della complessità e delle ambiguità del reale.
Si tratta piuttosto di rinunciare all’idea che per capire la condizione di autore sia necessario ricorrere all’alternativa tra vero e falso, tra realtà e finzione, tra soggettività e oggettività. Autore è colui che riesce a dare un senso in qualche modo universale alla propria opera; colui che, attraverso la propria opera, riesce a veicolare un significato che prescinde dalle particolarità di individui e circostanze determinate. Se l’opera interpella e convoca una comunità di persone che attorno ad essa si raccolgono e in essa si riconoscono, allora davvero l’autore è autore. E porta il carico di tale condizione.
Soltanto uno sguardo ostinatamente appiattito sul presente potrebbe negare che il «raccontar storie» sia un’attività ben più seria di quanto il significato corrente dell’espressione lasci intendere. Le grandi narrazioni del passato erano capaci di proporsi come il nucleo attorno al quale coagulare una tradizione, in quanto offrivano – e offrono – letture della realtà dense di significato: né resoconto di fatti, né invenzione arbitraria, ma strutturazione del mondo, attribuzione di senso e offerta di un orientamento.
È da questa radicale richiesta di senso che viene investito l’autore. E da questa medesima richiesta di senso, volenti o nolenti, giusto o sbagliato che sia, sono investiti gli operatori dell’informazione e – più in generale – dell’industria culturale: volenti o nolenti, dunque, essi sono chiamati a confrontarsi (magari per opporvi un deciso rifiuto) con la possibilità del loro essere «autori».
Il cosiddetto «fatto», l’oggetto a proposito del quale il pubblico ha il diritto di essere correttamente informato, non è soltanto difficilmente isolabile da tutto ciò che oggettivo non è, ma, di per sé, non riveste alcun interesse per nessuno: a interessare è il senso. L’audience ha l’esigenza di capire, oltre che di sapere. Esigenza alla quale l’operatore, il giornalista, l’inviato, rispondono con linguaggi, metafore, vere e proprie strategie narrative che hanno in primo luogo la funzione di guidare il lettore o lo spettatore in contesti loro parzialmente estranei, secondo modalità non dissimili da quelle del racconto. Organizzare gli eventi in prospettive e contesti, secondo certe trame e certi ritmi, far leva sulla sfera emotiva oltre che su quella razionale, non significa manipolare, ma rendere accessibile – nell’unico modo in cui ciò è possibile – un significato.
In un’epoca come la nostra, che pare caratterizzarsi proprio per il fatto che è venuta meno la capacità di aggregazione delle grandi narrazioni tradizionali, una simile richiesta di senso investe in modo pressante chiunque prenda pubblicamente la parola: che lo voglia o no, che si trinceri o meno dietro la propria presunta neutralità. Allora, il problema della responsabilità di chi opera nell’informazione deve essere impostato a partire da una prospettiva ben più ampia di quella del feticcio dell’oggettività.
Più facile a dirsi che a farsi, senza dubbio. Inutile nascondersi le difficoltà: anzi, impostare il problema della responsabilità a partire dal concetto dell’«autore» costringe a confrontarsi seriamente con la possibilità che, a prescindere dalle intenzioni e dalla volontà dei singoli, le condizioni materiali che presiedono alla produzione dell’informazione rendano impossibile il costituirsi stesso di una figura simile. Il processo che genera l’informazione è ramificato e segmentato al punto che risulta difficile individuare soggetti, interessi e meccanismi in gioco.
Come e a quali livelli agiscono i filtri che regolano i flussi di informazione? Quale il diverso peso degli interessi dominanti? Che rilevanza hanno le strutture di comunicazione imposte dai format consueti? E, soprattutto, ci sono – e quali sono – gli interstizi che consentono che nel meccanismo di questa filiera si insinui l’intervento di «autore»? Oppure è necessario prendere atto della definitiva «dissoluzione» di questa figura e magari, a fronte delle trasformazioni tecnologiche dei modi di trasmissione dell’informazione, consegnare integralmente la funzione di ricostruzione di un senso al destinatario ultimo della comunicazione, unico «autore» sopravvissuto?
Ipotesi che risulterebbe confortata dal particolare rapporto, specie nei palinsesti TV, fra presunta informazione e presunta fiction. Oggi, dopo la reazione degli Italiani a Nassyriah, viene spontaneo chiederselo: quanto Maresciallo Rocca c’è nella solidarietà che è stata espressa ai Carabinieri? E quanta “cultura civile” c’è, più in generale, nella restituzione drammaturgica dei back-offices e dell’umanità di Distretti di polizia e Scorte, Medici in Prima Linea ed in Famiglia, e quant’altri fino a ieri avremmo letto come intrattenimento o come autocelebrazione?
E, infine, quanto ha influito la proposizione narrativa dell’Arma sulla stupefacente compattezza valoriale e linguistica che feriti, colleghi, orfani e vedove delle vittime hanno messo in luce nell’espressione del dolore e in quella della determinazione che ne è seguita?
Si dovrebbe concludere per un generale rimescolamento di funzioni fra informazione e fiction: la prima, costretta ad inseguire un pathos perfino artificioso, per fidelizzare l’audience; la seconda, in un contesto fictionale e coinvolgente, resa veicolo di condivisione reale di codici e valori.
Non avrebbe evidentemente senso tentare di elaborare in astratto questi interrogativi; da questo le domande ben concrete che scandiscono l’agenda dei lavori, e che vertono su problemi peculiari di specifiche tipologie di operatori dei media.

Due nuove domande, in parte suggerite da eventi e prospettive non ancora in campo nella fase di progetto, mi sembrano invece di portata trasversale alle diverse specificità professionali e culturali:

• su quale nuovo scambio e/o patto fiduciario fondare – alla luce del rimescolamento di funzioni individuato – credibilità e autorevolezza del sempre più sofisticato sistema dell’informazione nel suo rapporto con opinioni pubbliche sempre più plurali e globali?

• come traslare l’imperativo astratto dell’obiettività nel vissuto critico e interpretativo dei destinatari, oggi forzati “autori” della lettura ultima dei fatti e, forse, estremi artefici del mito?

Confido nel Presidente Manca, nei nostri moderatori e nella amabile attenzione della platea perché la qualità professionale e culturale dei partecipanti ai diversi panel in programma possa tradursi nel radicale aggiornamento di prospettiva del quale, purtroppo, il nuovo scenario mondiale rende sempre più urgente l’evidenza.

Grazie, buon lavoro a tutti.

Introd. Enrico Manca

Il ruolo di convegni, come quello che Nova Spes ed Isimm hanno promosso, è sempre stato quello di sviluppare una riflessione, a bocce ferme: obiettivo analizzare fenomeni complessi come quelli di cui stamane ci occupiamo. Ma questo approccio è oggi divenuto praticamente impossibile. Le bocce sono in continuo movimento! E’uno degli effetti della globalizzazione che ci portaa vivere in un presente continuo, in un “presentismo” che cancella non solo le barriere spaziali ma anche quelle temporali: un continuo presente che ci impedisce, di fatto,di avere quel distacco che l’analista dovrebbe sempre avere nei confronti degli eventi. Io penso che si debba acquisire piena consapevolezza di questo rischio; un rischio ormai inevitabile. Un filosofo francese Pierre André Taguieff ha ben descritto questo stato di cose in un saggio intitolato “La cancellazione dell’Avvenire”. In realtà anche il nostro passato, o meglio la lettura che ne facciamo oggi, rischia di essere cancellato o meglio di rimanere imbrigliato come prigioniero di questo continuo presente. Rischiamo di vivere sempre a “caldo” il susseguirsi degli eventi e degli episodi di un conflitto permanente, di una guerra che è al contempo uno snodarsi di atti bellici o di atti definiti terroristici ed una guerra virtuale; una guerra guerreggiata ed una guerra di informazioni all’interno di un nuovo disordine globale. Uno degli effetti della globalizzazione fa sì che la simultaneità nell’istantaneità tenda a non distinguere l’evento dalla narrazione dell’evento: evento e narrazione si confondono all’interno di un flusso indefinito di informazioni.
Ma prima di entrare più direttamente nel merito della nostra riflessione, vorrei esprimere la particolare soddisfazione dell’Isimm per avere promosso insieme a Nova Spes questa iniziativa.

Credo sia davvero utile incrociare le nostre esperienze e farle dialogare, mettere in contatto i nostri riferimenti culturali ed i nostri punti di vista. Mi auguro che i risultati siano proficui.
L’Isimm fin dalla sua nascita si è posto come punto di incontro tra imprese, Università ed Istituzioni. Il nostro ruolo è di fare ricerca; e in pari tempo essere centro di iniziativa per disseminare contenuti; il nostro ruolo è studiare l’impatto delle innovazioni tecnologiche della comunicazione, sui media, sulla qualità della vita e sul sistema sociale in generale; e in pari tempo il nostro ruolo è sviluppare iniziative per rendere ai cittadini più utili e funzionali le tecnologie della comunicazione. L’Isimm si ispira ad un principio Weberiano: studiare, esaminare, disseminare senza emettere giudizi di valore.

Ma l’iniziativa di oggi ci pone, però, in un certo qual modo, in una situazione nuova:sappiamo che ci sono differenze tra Isimm e Nova Spes e ci auguriamo che proprio da queste derivino gli spunti più interessanti di queste giornate. Le diversità tra Isimm e Nova Spes sono riconducibili sia a radici culturali diverse, che agli scopi: prevalentemente di ricerca teorica, quelli di Nova Spes e prevalentemente, invece, di ricerca empirica e di disseminazione culturale i nostri. Tuttavia non mancano punti di interessante intersezione tra le nostre attività; e vi è, in ogni caso, da parte nostra un convinto interesse a comprendere e a condividere esperienze comuni con dei “saperi” e delle attività di ricerca di così alto valore come quelli rappresentati dalla Fondazione Nova Spes.

Il titolo assegnato all’incontro: Il conflitto tra narrazione e media: dissoluzione dell’autore? Punto interrogativo, punto di mediazione tra i promotori, si presta a letture multiple è chiama in causa esperienze diverse e consente ad ognuno di effettuare un’analisi secondo la propria griglia di lettura, sia essa culturale, scientifica, tecnologica o politica.
Distico – Ultima di copertina. La provocazione più forte è la domanda sulla dissoluzione dell’autore stesso come possibile “danno collaterale” del frastagliarsi dei tempi e ruoli nella filiera industriale della notizia.

In effetti una delle possibili interpretazioni del titolo può condurre ad accusare radicalmente i media, annebbiandone se non negandone, la funzione sociale e culturale. I media finora sono stati tra i depositari della narrazione attraverso il ruolo dell’autore. Ma secondo alcune interpretazioni, lo sviluppo pervasivo dei media audiovisivi, la cosiddetta “onda elettronica”, avrebbe introdotto elementi di dissoluzione dell’autore e della narrazione

Di fronte ad un ipotetico J’accuse! così forte le radici della mia cultura politica e la mia esperienza professionale mi suggeriscono di leggere la vicenda in modo molto diverso. A mio giudizio Internet e le reti digitali chiudono un ciclo iniziato non nel secondo Novecento, come qualcuno afferma, ma forse, addirittura 35 – 40 mila anni fa, nell’epoca dell’uomo di Cro-Magnon (il luogo in cui sono stati ritrovati gli scheletri di questa specie). All’epoca cioè a cui si fa risalire la scoperta della parola e contemporaneamente al momento in cui, non a caso gli esseri umani iniziarono a inventare e mettere in opera le prime tecniche di raffigurazione delle immagini. Le invenzioni della parola, delle immagini e – più in generale – di ogni forma di comunicazione, servono a soddisfare i bisogni umani di adattamento all’ambiente e comprensione della propria identità. E fin dal principio la possibilità di distorsione della realtà è immanente ai mezzi di espressione
Qualsiasi mezzo può essere sempre utilizzato bene o male, per la verità o per la mistificazione
Del resto ancora oggi archeologi e storici dell’arte non riescono a stabilire fino a che punto le rappresentazioni disegnate dai nostri antenati nelle grotte o nelle piramidi fossero realistiche o immaginarie. Si discute molto dell’esistenza dell’obiettività. Una obiettività asettica non penso che esista. Deve esistere certo una deontologia professionale; ed esiste un processo forte di avvicinamento alla verità attraverso una polifonia di mezzi di comunicazione in grado di formare un caleidoscopio di segmenti di verità, secondo una linea che in un seminario organizzato subito dopo il crollo delle Torri Gemelle l’11 settembre ebbi modo di riassumere in questa formula che vorrei ribadire: informazione tutta, spettacolarizzazione poca; contestualizzazione sempre. I media ontologicamente agiscono nella zona liminare tra il reale e l’immaginario. Ma proprio per la caratteristica, di metterci di fronte a ciò che viviamo e a ciò che vorremmo vivere, a ciò che siamo e a ciò che vorremmo essere, i media possono essere portatori di una realtà a volte “più reale del reale”.

La storia della civilizzazione umana è stata per secoli contraddistinta da alcune peculiarità: la divisione tra chi narra e chi è narrato, tra il principe e il suddito, tra lo scrittore e il lettore. Il potere e la comunicazione tradizionali riconoscono il proprio statuto in tali scissioni o meglio in tali fratture: da una parte i depositari della legge, i custodi dell’ordine costituito, i dispensatori del “verbo” e i detentori e manipolatori dei simboli; dall’altra la gente comune, il volgo, una folla di soggetti senza possibilità di azione comunicativa e di interazione con gli autori, senza diritti alla comunicazione e all’espressione. Da una parte i produttori di simboli e dall’altra i recettori tendenzialmente passivi.

La modernità occidentale imprime alla storia una svolta significativa, apre i sistemi socio-culturali alle spinte che emergono dal basso del corpo sociale e le immagini costituiscono i dispositivi simbolici che rendono possibile un passaggio di scena così significativo. Sottolineare il ruolo svolto dalle “immagini” nell’accelerare il processo di democratizzazione della società occidentale, serve a mettere in discussione alcune letture catastrofiche e apocalittiche sul ruolo e la funzione dei media nell’ambito delle nostre società.

La liberalizzazione dei processi di diffusione, proliferazione e creazione di immagini e di comunicazioni è uno dei fondamenti dei processi di modernizzazione, secolarizzazione e democratizzazione delle nostre società. Processi va subito precisato che affondano le loro radici in epoca assolutamente pre-televisiva. Il conflitto medievale tra iconofili e iconoclasti si era già risolto a favore dei primi; ma è con l’Umanesimo e il Rinascimento italiano che inizia il processo di “mondanizzazione” dell’immagine. Emblema della nuova concezione dell’immagine è la Trinità del Masaccio, ove sono rappresentati tre piani visivi: vicino all’osservatore il gruppo dei mortali, in uno spazio intermedio i santi e sullo sfondo il Cristo e Dio Padre. La composizione appare davvero rivoluzionaria se si pensa che per la prima volta uomini contemporanei erano raffigurati, nella stessa cornice e per giunta in primo piano, accanto ai soggetti sacri. Inizia quindi il lungo processo che ci porterà alla fotografia, al cinema, alla televisione: l’invasione dello “schermo” da parte del volgo.

Qui risiedono anche i prodromi della “mediatizzazione” del territorio. Qui si innesca un processo virtuoso e progressivo nel quale cittadinanza e tecnologie entrano in contatto e in rapporto dialettico. La cittadinanza esprime bisogni sociali che le tecnologie soddisfano. La tecnologia non è esterna alla società ma interna ad essa.
I media sono investiti da subito del compito di mediare i conflitti, trasmettere i codici culturali, porre in luce dinnanzi a tutti lo scorrere degli avvenimenti e il fluire della vita contemporanea: in una parola di veicolare lo “spirito del tempo”. Via via succede qualcosa di straordinario, il territorio fisico si trasferisce in quello mediale: i media divengono il mondo, quello reale e ancor più quello immaginario. I media ci restituiscono una realtà “più reale del reale”; ci portano oltre l’hic et nunc del nostro vissuto personale, abbattono le distanze spazio-temporali e ci liberano dai limiti della nostra esperienza fondata su dove siamo e su ciò che vediamo. Questo processo raggiunge il pieno compimento con la televisione, che ci porta il mondo in casa e consente di rendere visibile la nostra casa al mondo.

In Italia gli studi di Eco e De Mauro confermano che la televisione ha unito linguisticamente e culturalmente la penisola. Lo ha fatto nel bene e nel male. Sicuramente non ha unificato con il linguaggio di Dante, ma con quello di Mike Bongiorno e Pippo Baudo, del Festival di Sanremo, del telegiornale e delle cronache sportive. Ma resta un dato: la TV è diventata il più consono “contenitore” della società italiana tardo-moderna, il più in linea con le esigenze, i desideri, i sogni e persino gli incubi dell’immaginario collettivo.

Le immagini e i contenuti veicolati dai media hanno “fatto cultura” più di ogni opera letteraria. Può non piacerci, ma è così. I media non costituiscono di per sé il principio della dissoluzione dell’autore bensì restituiscono la realtà sociale nella sua complessità. Certo, la figura dell’Autore può corrompersi nel momento in cui entra a far parte di un sistema di mercato, nel momento in cui il senso di un’opera d’arte non risponde tanto al suo valore estetico o alla sua funzione socio-culturale, ma alla sua capacità di piacere ad un pubblico di consumatori. Ma è tutto il sistema che si fa più complesso e con esso la figura dell’autore e quella dell’utente, del lettore o del consumatore. L’autore in molti casi cessa di essere una persona singola e diviene un soggetto collettivo, una somma di istanze. E’ raro rintracciare prodotti culturali, ed in particolare mediali, frutto di un solo autore. Anche il più tradizionale dei prodotti culturali, il libro deriva nella maggior parte dei casi da un rapporto in cui entrano in gioco quantomeno un editore e uno scrittore. Nel cinema il soggetto-autore è ancor più collettivo: un film – lo teorizza un Autore come John Ford – è un prodotto collettivo plasmato da sceneggiatore, regista, musicista e anche dai tecnici, per non parlare del ruolo dei produttori e distributori. Più che alla dissoluzione dell’autore assistiamo quindi alla complessificazione del suo ruolo, alla moltiplicazione dei soggetti necessari a dar vita a un autore.
Il passaggio dal “villaggio globale” alla “babele elettronica” (titolo di un recente libro di Bino Olivi e Bruno Somalvico, uno dei più intelligenti e attivi collaboratori dell’Isimm) aiuta a capire il perché del minor spazio disponibile oggi per un autore in senso classico. Il monopolio della CNN ai tempi della prima guerra del Golfo, consentiva ad un giornalista come Peter Arnett di giocare un ruolo autoriale. Oggi il “policentrismo informativo” indotto dall’irrompere sia di nuovi emittenti a diffusione transnazionale sia dei nuovi media, obbliga a misurarsi con le risorse e i rischi dell’intero sistema mediatico. E’ ancora una volta utile richiamarci all’esperienza televisiva. La Tv ha funzionato come “mezzo” perché ha dimostrato di essere duttile, di sapersi adattare alle domande espresse o latenti del pubblico. Ben presto autori e programmisti hanno dovuto prendere atto che avrebbero potuto “veicolare” ciò che desideravano, solo se il loro lavoro creativo si fosse confrontato quotidianamente con gli spettatori.
Il ruolo dell’Autore perde la sua “sacralità” originaria e si piega alle domande del mercato. D’altra parte, anche in questo caso, il processo affonda le sue radici nel tempo. In particolare, come ha notato Walter Benjamin, nel momento in cui con la fotografia l’opera d’arte diviene tecnicamente riproducibile, a tutti accessibile e da tutti manipolabile.

Oggi i migliori autori risultano essere coloro i quali saldano maggiormente le proprie opere all’immaginario e alle aspettative degli spettatori e dei consumatori. Il pubblico desidera sempre più divenire protagonista; non più assistere ma interagire; non più rimanere legato solo al rigido e tendenzialmente passivo ruolo di spettatore ma essere anche in attore. Il successo di programmi quali i reality show è espressione di questa tendenza.

Il processo è lungi dall’essere concluso e sta conducendo la nostra società, e con essa il sistema dei media come sua diretta espressione ed emanazione, a servirsi di tecnologie culturali e di piattaforme espressive che privilegiano l’azione alla visione, il protagonismo alla passività, la creazione alla semplice fruizione. La televisione digitale terrestre e ancora oggi soprattutto Internet sono dispositivi tecno-comunicativi che liberano e lasciano agire le soggettività e le pulsioni che premono dal basso del corpo sociale. Il passaggio dalla TV generalista ai linguaggi digitali, alle reti e all’interattività va essere interpretato come una risposta che il mondo dell’industria, della cultura e della comunicazione fornisce alla domanda sociale. Nessun fenomeno sociale e culturale è oggi pienamente comprensibile al di fuori della cornice dei media. Ciò vale anche per la rappresentazione dei conflitti. Se aggiorniamo la “cornice dei media” con le tendenze in corso, ci accorgiamo che saranno sempre più i cyber-cittadini a dire la parola decisiva, a emettere la sentenza. I sistemi politici e comunicativi tradizionali si sono fondamentalmente basati sul monopolio della scelta e della selezione dei soggetti della comunicazione e delle comunicazioni da veicolare. La post-modernità ci trasferisce in una dimensione diversa, ove proliferano e si moltiplicano a dismisura i comunicatori e le comunicazioni, in cui ad avere la meglio non è più necessariamente chi detiene il potere tout court ma chi appare e sa essere più credibile e convincente. Anche da ciò nasce l’ esigenza di assicurare che la rete rispetti la polifonia del sociale senza privilegi per nessuno, e che le tecnologie della comunicazione siano mezzi a disposizione di tutti, in cui tutti possano scambiare conoscenze e comunicazioni nel rispetto delle diversità.
E’ questo il modo per attenuare il più possibile lo scarto esistente tra narrazione e media. Più i media sono “voci” in sintonia con la policromia del sociale, con la complessità del reale, e più ci si difende dalla trasmissione di una realtà distorta o falsificata. La guerra e il drammatico dopo-guerra in Iraq deve a questo proposito metterci in guardia. Il legame culturale, operativo e produttivo del sistema mediale americano con gli apparati e con le logiche che hanno scelto come opzione la guerra, fa sì che la guerra e il dopoguerra segnato da “seguito di sangue” siano stati e siano ancora oggi raccontati in maniera non sempre corrispondente alla realtà dei fatti. Anche le nuove emittenti arabe non si sottraggono al rischio di manipolazione delle informazioni sulla guerra e sul terrorismo come ha documentato pochi giorni fa sul Corriere della Sera di venerdì 21 novembre il giornalista Magdi Allam. In questi mesi scrive Allam i media riflettono la disomogeneità dell’opinione pubblica ed anche la lassitudine venutasi a creare in questi giorni dopo l’ennesimo attentato di sangue. Il caos globale viene riportato in quanto tale e genera audience, ovvero nuovi introiti per le emittenti di informazione continua, siano esse occidentali o arabe -. Le une e le altre vedono crescere i propri utenti e quindi i fatturati proprio nei momenti di tensione e pertanto “sono disposte a pagare qualsiasi prezzo per poter diffondere in esclusiva i discorsi di Bin Laden o di Saddam. Non gliene importa niente dei contenuti. E’ una competizione esclusivamente commerciale”. Fine della citazione.
Riflettendo su questa situazione si può forse dire che la TV rischia di perdere la sua sfida e conferma di essere – così come si propone oggi – un medium troppo legato alla cultura di appartenenza, troppo legato ad una cultura di comunicazione unidirezionale con un’informazione che rimane troppo spesso “sotto sorveglianza”. Si può riflettere come al contrario contrario lo sviluppo di nuove forme di comunicazione personalizzate e interattive rese possibili attraverso le nuove reti telematiche può offrire l’accesso a forti ed innovative possibilità informative.

Proprio la ragnatela dei siti web fruibili su Internet, ed in particolare il mondo dei blogger, ci ha messo di fronte alle realtà che si producevano sul campo, ci ha messo in contatto con i protagonisti, ha fornito ai cyber-cittadini la possibilità di esprimere le proprie opinioni e le proprie versioni dei fatti. Non penso si possa etichettare il fenomeno come semplice “controinformazione”. Il fenomeno dei blogger ha prodotto informazione, filmati, voci vive. Dissensi ed assensi. Naturalmente sarebbe un errore considerare i Web blog dotati di credibilità indiscussa . Il problema è altro: l’importante è che chi giudica oggi il sistema mediale capisca che la TV (almeno nella sua forma classica lineare e unidirezionale) non è più la parte del tutto, ma una delle parti. Per aderire ed essere in sintonia con i modi di vita e di senso che proliferano nel vissuto quotidiano bisogna esplorare tutto il panorama mediale. Le tecnologie della comunicazione trasformano le nostre abitazioni in cyber-dimore; ci proiettano nella ricchezza e nella complessità del circuito globale. In questa grande sfera diviene difficile se non impossibile imporre una “verità” e una lettura dei fatti. Tutte le diversità si incontrano e si scontrano nel nuovo quadro fluido e sincretico. In rete diviene più semplice percepire il proprio punto di vista come parziale e contaminarsi con chi ha una posizione diversa, contaminarsi con lo “straniero”. D’altra parte è questo il significato etimologico di comunicazione: “mettere in comune”. La TV digitale terrestre, Internet e gli altri media costituiscono gli strumenti più adatti a integrarci nello stesso mondo, a ricordarci che facciamo tutti parte dello stesso pianeta.

Il conflitto è lo stato permanente del nostro modo di essere. Sappiamo che i conflitti hanno due possibilità di sbocco, una positiva, l’innovazione e il mutamento; l’altra negativa, lo scontro, la guerra. Il conflitto è dialettica e possibilità di mettere in discussione uno status quo. La società non può fare a meno di conflitti, di discussioni, di contrapposizioni di interessi. Questi costituiscono il motore del mutamento. Il sistema mediale deve operare al fine di fornire una piattaforma comunicativa nella quale dibattere civilmente e democraticamente per poter scegliere. I media attenuano i conflitti quando fungono da collettori, da strumenti di confronto, da arene pubbliche intelligenti. I media alimentano i conflitti allorché si schierano pregiudizialmente, o si muovono nell’interesse di pochi. I media di per sé non creano né spengono i conflitti, ma possono contribuire a far prevalere il confronto sullo scontro, le argomentazioni agli insulti, le informazioni alle mistificazioni di ogni propaganda.

Concludo con una annotazione ed una citazione: una cultura che ammette il conflitto e le differenze non solo tra i contendenti riconosciuti, ma all’interno di ciascuno di essi, favorisce a diffondere e a fruire comprensione,contaminazione, dialogo. La citazione con cui concludo la ricavo da un introduzione di un recente libro di Stefano Levi Della Torre, pittore e saggista che si intitola “Zone di turbolenza: intrecci, somiglianze, conflitti”. Scrive Stefano Levi Della Torre: “…L’idea che l’ “Occidente” sia una cosa sola, abbia un’unica anima e possa riassumersi in un pensiero coerente e unificato; l’idea che le “società islamiche” siano una cosa sola; l’idea che i palestinesi siano tutt’uno col terrorismo o, sull’altro versante, che gli ebrei e Israele siano tutt’uno con l’imperialismo sono idee false per il semplice fatto che ogni civiltà o popolo o gruppo umano (o anche persona) sono costellazioni che in quanto viventi (in passato o nel presente) sono contraddittorie, attraversate da conflitti e da antagonismi.

Dire che l’”Occidente” si riassume nella razionalità strumentale, nega quanto meno la storia formidabile del pensiero critico o dell’arte in Occidente; dire che l’Islam si riassume nel fanatismo religioso nega non solo la sua antica saggezza a cui dobbiamo anche tanta scienza e filosofia, ma i conflitti in atto all’interno delle società di tradizione islamica. È la definizione stessa di civiltà a non ammettere una riduzione all’uno, all’omogeneità priva dei contrasti che ne animano la dinamica…”.

Mi sembra una citazione riassuntiva dell’essenza di ciò che ho cercato di trasmettere con questa mia introduzione. In essa riscontro quella “laicità critica” che mi sembra essere la chiave con cui poter guardare e cercare ciò che avviene in questo nostro tempo certo non usuale.

PRIMA SESSIONE: Chi impagina? Meccanismi e soggetti della selezione

Dopo le relazioni introduttive di Laura Paoletti ed Enrico Manca, MASSIMO FICHERA (vicepresidente dell’ISIMM) ha introdotto i lavori della prima sessione intrattenendosi sull’importanza dell’operazione di «impaginazione» intesa come definizione di una gerarchia tra gli eventi di cui viene data notizia; operazione tanto poco neutrale che il solo controllo di questa è sufficiente ad imprimere la linea politica di una testata, come hanno dimostrato celeberrimi direttori editoriali del passato (quali Pannunzio o Debenedetti). Fichera ha quindi proposto alla riflessione la domanda sul differente impatto dell’«impaginazione» nel caso del mezzo televisivo, che appare ancor più sensibile all’effetto di prospettiva da essa indotto di quanto già non sia la carta stampata.

Il primo intervento della sessione è stato affidato a DENNIS REDMONT, della Associated Press, che ha tracciato un quadro dei cambiamenti intervenuti sul modo di costruire il monte notizie a livello mondiale da parte delle grande agenzie rispetto a quanto accadeva nel passato. Se prima la selezione dipendeva dalla rapidità e dalla capacità dei singoli inviati, oggi la gerarchia viene stabilita in conferenze che si tengono più volte al giorno al Rockfeller Plaza. Qui viene preparato, e continuamente riplasmato, il «menu» mondiale offerto ai mezzi di comunicazione come su un «nastro trasportatore». Redmont ha quindi messo l’accento su un fenomeno già ampiamente riscontrabile negli USA e destinato ad assumere sempre più rilevanza in tutto il mondo: quello della cosiddetta «tactical convergence», ossia l’interazione tra mezzi di comunicazione diversi, in particolare televisione e carta stampata. Entro breve non si potrà più comprendere la selezione ragionando su un solo tipo di mezzo, ma sarà necessario tener conto del fatto che inevitabilmente si creeranno sinergie di convergenza tattica, appunto, atte a razionalizzare le risorse (per esempio utilizzando un unico inviato in duplice veste) e a ottenere un effetto di reciproco rafforzamento (per esempio pubblicizzando ai telespettatori gli approfondimenti presenti sul quotidiano). Questo implicherà il possesso di competenze nuove e diverse e trasformerà in modo significativo le professioni legate all’informazione.

NICOLA LOMBARDI, di Sky News, ha affrontato il problema dell’impaginazione dalla prospettiva di una testata giovanissima, che è al momento l’unica in Italia ad operare secondo la modalità dell’«all news». L’esigenza di approntare un unico telegiornale ininterrotto (e non 3 o 4 TG al giorno) modifica profondamente l’operazione di selezione. A volte si rende necessaria una reimpaginazione delle notizie pochi minuti prima di andare in onda, il che richiede velocità, accuratezza e capacità di immedesimarsi nello spettatore per fare in modo di rispondere il più possibile alle sue esigenze di informazione. Secondo Lombardi si può affermare che, in un certo senso, è la notizia stessa che si impagina da sé, e che il vero lavoro dell’operatore consiste nell’aiutare lo spettatore a comprenderla, adottando alcuni criteri di correttezza fondamentali come l’esplicitazione e la verifica delle fonti. La crescente importanza assunta dalle immagini, e la potenza comunicativa che è loro propria, renderebbe invece necessario una più approfondita riflessione sui criteri per vagliare l’opportunità della loro divulgazione.

L’intervento di ENRICO MENTANA, direttore del TG5, ha inteso svolgere una riflessione sull’«immagine» come tratto unitario di ciò che si è soliti definire Occidente. In effetti è possibile accomunare sotto il titolo di «iconoclasmi» i grandi avversari che si sono frontalmente opposti alla cultura occidentale: dal nazismo al comunismo, fino al regime dei Talebani in Afghanistan. L’invisibilità del capo si pone esplicitamente fuori dal recinto della rappresentabilità, che definisce i confini stessi dell’Occidente. Mentana si è dunque soffermato sul paradosso per cui gli iconoclasti hanno attaccato nel modo più duro l’Occidente attraverso un sapiente uso proprio delle immagini, al punto che non sarebbe inappropriato definire l’11 settembre come una vera e propria deflorazione mediatica: la breve pausa dopo l’attacco alla prima torre ha consentito che tutti i media potessero registrare e trasmettere il secondo attacco. Nella situazione attuale un qualunque video di Bin Laden, a prescindere da ciò che questi eventualmente affermasse, avrebbe due significati inequivocabili trasmessi dal fatto stesso dell’immagine: che è vivo e che lancia una nuova sfida. Per questo il conflitto che stiamo attraversando si gioca innanzitutto sulla forza simbolica di immagini contrapposte. Questo predominio dell’immagine, i tempi serrati che essa impone all’informazione, rende meno netta, secondo Mentana, la distinzione tra all news e telegiornale in senso tradizionale proposta da Lombardi: basti pensare al ritorno delle edizioni straordinarie. Non è più sufficiente rispettare la scaletta prefissata: l’operatore costretto ad assumere più ruoli contemporaneamente. Tutto questo rende, conclude Mentana, affascinante e vano l’interrogativo sull’autorialità.

ANTONIO DI BELLA, direttore del TG3, si è soffermato sulla pluralità che caratterizza l’informazione relativa all’attuale conflitto iracheno e che differenzia profondamente la situazione attuale rispetto a quella della prima guerra del Golfo. Oltre alla CNN oggi sono presenti Fox News, El Arabya, Al Jazeera; non solo: l’uso dei videotelefoni ha enormemente semplificato la trasmissione di notizie da parte dell’inviato (come dimostra il caso esemplare dello scoop realizzato da Giovanna Botteri). Queste novità mettono nuovamente in gioco la figura dell’autore, perché consentono nuovamente all’inviato di raccontare qualcosa senza dover passare per i complicati meccanismi di trasmissione del passato e di scompaginare in tal modo le iterazioni. Ciò non toglie nulla, secondo Di Bella, all’importanza delle scelte editoriali di impaginazione. Queste creano un effetto di prospettiva simile a quello utilizzato da Masacccio, per articolare su livelli diversi la narrazione pittorica e per mettere in primo piano la gente comune relegando sullo sfondo i potenti. Gli effetti sono evidentemente di portata notevole: basti guardare alla differenza tra Italia e USA rispetto alla copertura mediatica del lutto. A fronte dello spazio che i media italiani hanno riservato ai funerali dei militari impegnati a Nassirya, la scelta di Bush, che non si è mai mostrato in compagnia dei familiari delle vittime, è stata quella di evitare che le ferite inferte fossero percepite nella loro gravità.

A quest’ultima affermazione di Di Bella ha replicato PIERLUIGI MAGNASCHI, direttore dell’ANSA, secondo il quale la differenza tra Italia e USA da questo punto di vista è puramente quantitativa: sarebbe impossibile offrire una copertura mediatica al lutto come quella italiana in un Paese che sconta nel conflitto iracheno circa 7 morti al giorno. Magnaschi ha inoltre sollevato perplessità, riferendosi all’intervento di Enrico Manca, circa la possibilità che Internet rappresenti un incremento di democrazia, stante lo strapotere di fatto dei mezzi di informazione americani. Per quanto riguarda lo specifico del proprio intervento, Magnaschi ha illustrato le modalità di impaginazione generalmente seguite dall’ANSA. Anche un’agenzia di informazione costruisce una «prima pagina» in vista di potenziali clienti: da questo punto di vista fa poca differenza il fatto che i richiami siano circa il doppio di quelli di un quotidiano. Ciò che conta è che l’ANSA si trova ad operare su una prima pagina già ampiamente costruita a Washington, dove la presunta pluralizzazione data dalla presenza di altre emittenti oltre alla CNN, non cambia nella sostanza la situazione di monopolio di fatto dei media americani. Una volta che si siano messe da parte le convinzioni fondamentalmente errate per cui esiste un controllo dell’informazione operato da qualche potere occulto, e per cui esiste la possibilità di un’assoluta oggettività, ne deriva, secondo Magnaschi, l’esigenza impellente di una reale pluralizzazione dei mezzi, di un reale aumento della possibilità di scelta da parte dell’utente. Sarebbe inoltre saggio evitare di incappare nella trappola di operare la selezione delle notizie in funzione di un presunto gradimento da parte dei lettori: i media hanno dato spazio quasi nullo all’appello dei mullah di Nassirya agli italiani perché continuino nell’opera di peace-keeping che stanno realizzando in Iraq e hanno, viceversa, insistito oltremisura sulle polemiche innescate da Adel Smith o dal mullah di Carmagnola, personaggi di cui, per altro, è dubbia la rappresentatività rispetto al mondo musulmano. Magnaschi ha concluso il suo intervento stigmatizzando la tendenza dei media a dare copertura esclusivamente alle notizie relative a conflitti a fuoco, come si vede dall’interesse praticamente nullo che, cessate le ostilità, sembra rivestire la penisola balcanica per i mezzi di informazione.

Dopo aver sottolineato come la moltiplicazione dei media non significhi necessariamente articolazione, e possa anzi diventare un fattore di omogeneizzazione, Massimo Fichera ha dato la partola a PEPPINO ORTOLEVA, docente di Comunicazioni di massa all’Università di Torino. Ortoleva ha esordito affermando che nel caso in cui fosse realmente in atto uno scontro di civiltà, lo avremmo già perso. Citando Todorov, il quale sosteneva che gli occidentali sono riusciti a sopraffare gli Indios americani perché capaci di comprenderne a fondo il punto di vista, Ortoleva ha rimarcato l’enorme svantaggio che rappresenta per l’Occidente la profonda e diffusa ignoranza della cultura musulmana: al punto che si confondono concetti del tutto diversi come quello di «imam» e quello di «mullah» e si parla del cosiddetto «imam di Carmagnola»; al punto che sembra che siano stati infiltrati in Iraq agenti della CIA incapaci di comprendere e parlare l’arabo. Di questa sconfitta che, insiste Ortoleva, è già in atto, i mezzi di informazione sono massimamente responsabili. Lo strapotere americano nell’informazione sottolineato da Magnaschi non deriva soltanto da supremazia economica, ma dall’aver compreso la superiorità dei processi sui prodotti. Gli americani non dettano tanto i contenuti, quanto piuttosto i meccanismi, le regole all’interno delle quali tali contenuti vengono trasmessi: il problema è dunque di metalivello. Nel caso di un conflitto militare è illusorio pensare che siano i media a fissare le notizie: è l’apparato militare. Dopo l’esperienza del Vietnam gli USA hanno compreso tutta l’importanza del controllo dei mezzi di informazione: un controllo che non viene esercitato con la censura, ma con mezzi di «pressione amichevole» particolarmente efficaci, come, per esempio, quello di offrire in esclusiva notizie a giornalisti che non divulgano informazioni sfavorevoli. Venendo al tema specifico del convegno, Ortoleva ha sottolineato come la modernità si caratterizzi per una strutturale inenarrabilità della guerra, che invece di per sé sarebbe l’evento narrativo per eccellenza. Ignorando tutto della realtà tecnica della guerra si utilizzano meccanismi narrativi che funzionano in tempi di pace e che, in qualche modo, la rendono accettabile: per questo si parla di human interest o di peace-keeping.

SECONDA SESSIONE: Chi e come legge? Problemi di fruizione, vecchie e nuove medialità

L’interrogativo guida della seconda sessione è stato introdotto dal moderatore, ALBERTO GASTON, docente di Clinica Psichiatrica presso la «Sapienza» di Roma, mediante un esame della figura del «lettore» a partire da una nozione che ha sempre affascinato la psicologia e che risulta difficilissima da definire: quella di «suggestione». Si tratta, secondo Gaston, di una qualità mentale tipica dell’essere umano che ama giocare, di una caratteristica della mente per cui questa tende a far sua qualunque idea gli venga proposta: è in virtù della consapevolezza di questa caratteristica che Freud elabora un concetto di terapia come fondamentalmente «parlata». Per quanto riguarda la seconda parte dell’interrogativo posto dal titolo della sessione, relativo al modo in cui il lettore legge, Gaston ritiene sia necessario affrontarlo in termini di «traduzione» tra due linguaggi essenzialmente diversi; una traduzione che quindi spesso risulta impossibile se non per mezzo di un processo mai concluso di approssimazione.

ALBERTO ABRUZZESE, docente di Sociologia della comunicazione di massa presso la «Sapienza» di Roma, esordisce puntualizzando la necessità di comprendere in senso ampio il concetto di «lettore» e quello sottinteso di «scrittura» cui il titolo della sessione fa riferimento: si tratta in entrambi di casi di un lettore e di una scrittura che vanno compresi in senso ampio, ossia come «audio-visivi». A partire da una concezione non soggettivistica dell’autore, che intende la funzione di quest’ultimo come strategia di costruzione di un principio di identità, di una legge, il cui legame con la scrittura è ben presente al pensiero occidentale, Abruzzese ha sviluppato una riflessione sull’immagine come unico linguaggio possibile in una società complessa, come fondamento di simulacri attraverso i quali si raggiungono le dimensioni di una società di massa. In realtà ciò che dà rilevanza all’«autore» è una cultura della produzione e del consumo, cui il cosiddetto «soggetto» è assoggettato, secondo un significato del termine che si è perso in italiano e che è rimasto ben presente nel corrispettivo francese sujet. Se questo è vero, lo sfaldamento della struttura piramidale, tipica di tale cultura della produzione, cui allude l’interrogativo relativo alla dissoluzione dell’autore è una possibilità da auspicare più che da temere.

L’intervento di SEBASTIANO BAGNARA, docente di Ergonomia cognitiva al Politecnico di Milano, si è incentrato sulla funzione dell’«autore», e su quella complementare del «lettore», nell’ambito della scienza, in cui il problema appare più complesso che altrove. Se è vero che lo sviluppo della scienza si nutre di idee, è anche vero che tali idee necessitano di infrastrutture per poter essere compiutamente realizzate, in mancanza delle quali nessun potenziale «autore» riesce a diventare effettivamente tale. Ma vi sono altri elementi che sembrano implicare un indebolimento o una vera e propria cancellazione della figura dell’«autore» nell’ambito della produzione scientifica: spesso gli articoli scientifici si presentano come lavori collettivi, quasi a sottolineare l’inadeguatezza di un lavoro di singoli. Viene inoltre considerato un elemento di merito il poter prescindere dal passato e dall’autorevolezza di questo; di poter prescindere cioè dalle idee elaborate da autori precedenti che diventano irrilevanti alla luce di quelle nuove. Il problema dell’autore (e dell’autorevolezza) si ripresenta tuttavia con forza nel momento della divulgazione, nel momento cioè in cui si deve tradurre la scoperta scientifica in un linguaggio accessibile al senso comune. Ma dunque – si chiede Bagnara – autore in campo scientifico è chi produce o chi divulga? La tesi di Bagnara è che l’apparente assenza di un autore nel momento dell’elaborazione è il frutto di un’incapacità di uscire dai confini del paradigma di riferimento scelto e di cogliere i conflitti tra paradigmi alternativi. Conflitti che sono intra-scientifici ma che possono essere anche extra-scientifici, ossia capaci di opporre frontalmente la scienza al senso comune dell’opinione pubblica, come attesta il caso del nucleare o quello delle biotecnologie. Da questo punto di vista il problema non sono i media, ma l’esser dentro il proprio paradigma e l’incapacità di uscirne. Il problema vero è dunque la traduzione tra linguaggi di paradigmi diversi e tra linguaggio della scienza e linguaggio del senso comune.

EDOARDO FLEISCHNER, progettista della Lumiq, ha esplicitamente assunto il punto di vista dell’autore e ha raccontato in prima persona i processi secondo cui un autore opera sfruttando il meccanismo della «suggestione» menzionato da Gaston e tenendo presente l’obiettivo ultimo della fruizione e dei fruitori. Stante il fatto che un autore non è un innovatore, ma un bravo «copiatore», ciò che fa la vera differenza tra un autore e un altro è la capacità di narrare. Non c’è alcun conflitto tra narrazione e media: il punto è che le innovazioni tecnologiche trasformano profondamente i modi del racconto, così che l’autore non può non tenerne conto: il che, però, non comporta affatto una dissoluzione di quest’ultimo, ma, semmai, ad una sua «disseminazione». Anzi, si potrebbe persino affermare che siamo in un’epoca di «panautorismo», in cui appare necessario rispondere in modo adeguato alle esigenze sempre più pressanti di una fruizione multimediale sempre più complessa. Si pensi all’impatto innovativo sulle tradizionali modalità di narrazione rappresentato, per esempio, dal cosiddetto «dual screen», per cui l’utente interagisce con due schermi contemporaneamente; o dalla fruizione mobile (UMTS), ossia dall’utilizzo di telefoni cellulari dotati di uno spettro sempre più ampio di funzioni e possibilità di interazione; o, infine, dalla fruizione multimediale vera e propria, per cui oggi un utente si serve generalmente di più media contemporaneamente.

GIUSEPPE RICHERI, docente di Strategie dei media all’Università di Lugano, ha insistito sul carattere «inquietante» che riveste oggi, a tutti i livelli, la questione della fruizione. Le conseguenze della trasformazione della TV in digitale sono di portata tale da richiedere un intervento a livello europeo. L’obiettivo è quello di rendere la TV digitale un servizio universale in grado di erogare tutti i servizi della pubblica amministrazione. Questo rilancia il problema dell’autore come figura in grado di redigere testi che siano fruibili da tutti e soprattutto a distanza, ossia che siano a tal punto autoesplicativi da non rendere necessario il ricorso a tutte le possibilità di correzione proprie dello scambio diretto di informazioni. Basti pensare all’impegno che richiederà la riconversione di testi della pubblica amministrazione per questo tipo di fruizione, che deve, tra l’altro, presupporre un utente medio con competenze relativamente basse, lettori che trovano grandi difficoltà nel leggere. Il fallimento di questo tentativo significherebbe un fallimento tanto dal punto di vista economico, quanto dal punto di vista della democrazia: nonostante questo in tutti i Paesi europei sembra prevalere un’impostazione determinista, per cui è sufficiente lanciare il progetto perché questo funzioni. Senza rendersi conto che l’ostacolo principale è rappresentato dalla legge del minimo sforzo che domina a tutti i livelli la fruizione televisiva.

L’intervento di LUCA TOSCHI, docente di Teoria della comunicazione all’Università di Firenze, si è incentrato sugli ostacoli che si incontrano nel tentativo di coadiuvare aziende pubbliche e private nel rinnovare la comunicazione: primo fra tutti il fatto che tali aziende non appaiono disposte ad accompagnare tale rinnovamento con la messa in atto di processi innovativi che coinvolgono la loro stessa mission. Non ci si rende conto, prosegue Toschi, che la nuova comunicazione riscrive gli spazi fisici e le competenze, che si continuano a far artificiosamente coincidere con le competenze territoriali senza comprendere la differenza che intercorre tra lo spazio fisico e quello virtuale: l’impressione è che si proceda per accumulo e senza un progetto complessivo. Sicuramente ciò che rende difficile orchestrare la transizione ad un nuovo tipo di comunicazione è la mancanza di figure e competenze adeguate; ma il mancato rinnovamento va attribuito, paradossalmente, anche alla velocità, che impone un primato del fare sul progettare. La mancanza di tempi lunghi fa sì che la tecnologia, nonostante quello che sembra, fatica ad essere davvero nuova, perché è troppo presente. Tutto questo, ovviamente, si riflette sugli «autori» che spesso sono esperti di contenuti ma si esprimono con linguaggi e parametri che non appartengono alla rete e ignorano il tipo di testualità che si trovano di fronte.

TERZA SESSIONE: Chi scrive? La narrazione del conflitto

Il moderatore della terza sessione, VITTORIO MATHIEU, Accademico dei Lincei, ha subito dato la parola a DUILIO GIANMARIA (TG1 RAI), presente in videoconferenza da Baghdad, al quale chiede una riflessione sulla «durezza» o «malleabilità» dei fatti che è chiamato a raccontare in quanto testimone. Gianmaria si dichiara per una assoluta malleabilità degli eventi, stante l’estrema difficoltà di accesso alle fonti e a punti di vista diversi da quelli delle fonti ufficiali. Nella caso specifico del conflitto iracheno tutto quello di cui si riesce a venire a conoscenza è ciò che filtra dalle fonti americane. Un esempio fra tanti: i morti americani non si vedono. C’è una censura mediatica da parte dei militari, che rende l’esperienza di chi deve raccontare quello che accade un’esperienza frustrante. Vi sono obblighi e non detti che rendono estremamente difficile il lavoro dell’inviato.

La parola è passata dunque a ANTONIO SCURATI, docente di Sociologia della comunicazione presso l’Università di Bergamo, che propone una riflessione su due figure cardine della guerra così come è rappresentata in Occidente. La prima è quella del terzo canto dell’Iliade, nel quale l’autore mette in opera la cosiddetta «teicoscopia»: dall’alto delle mura troiane Elena, su sollecitazione di Priamo, passa in rassegna le truppe achee e racconta ciò che sa di ciascuno degli eroi greci. Lo sguardo di Elena, che è poi quello di Omero, è panoramico e totalizzante. Prima di questo sguardo non vi è stata alcuna battaglia e a questo sguardo corrisponde un modo ben preciso di combattere: la cosiddetta monomachia. Gli eroi si affrontano a coppie e nello scontro acquisiscono visibilità, si staccano dallo sfondo. La piena visibilità, l’acquisizione di gloria è il criterio in funzione del quale si giudica la battaglia: è la motivazione politica e la legittimazione ideologica della guerra. L’Occidente pensa la battaglia come momento della verità, come un evento umano che però si consegna ad una narrazione memorabile. Il secondo estremo è rappresentato dalla guerra del Golfo: Peter Arnett racconta per 17 ore quello che dal proprio albergo non vede. Offre un’informazione autoreferenziale consapevole dei propri limiti e oscilla tra l’euforia dovuta al fatto di trovarsi al centro di una storia e la disforia che gli provoca il non poterla raccontare. Non si tratta più di una narrazione della guerra, ma dell’incapacità strutturale di narrarla. Non è solo perduto lo sguardo autorale: lo sguardo del telereporter è già lo sguardo completamente passivo del telespettatore. La presunta oggettività non è altro che povertà cognitiva e indifferenza etica, non è altro che l’inerzia dello spettatore presa a modello. Scurati conclude constatando il declino del paradigma della visibilità, per millenni associato alla guerra, e la mancanza di autorialità come incapacità di far presa sul mondo.

GIAN PIERO JACOBELLI, di Technology Review, ha esordito plaudendo all’avvenuta dissoluzione dell’autore espressa in forma di domanda dal titolo del convegno, perché tale dissoluzione non significa altro che la spontaneità della comunicazione. Jacobelli ha quindi esaminato l’implicazione sostanziale tra conflitto e racconto, utilizzando gli studi di Todorov, che definisce il racconto come infrazione all’ordine e rottura degli equilibri; di Greimas, che considera il racconto come un abbattimento in orizzontale della dimensione paradigmatica; e di Barthes che rilevava la ripugnanza per i codici della società borghese. Facendo riferimento all’VIII canto dell’Odissea, Jacobelli rileva il paradosso per cui il racconto «ben formato» di Ulisse ad Alcinoo, fa sì che questi creda proprio a colui che è il mentitore per eccellenza, colui al quale il Filottete della tragedia sofoclea si rivolge con parole di profondo disprezzo. Se un buon racconto riesce a riabilitare persino una figura poco raccomandabile come quella di Ulisse, ciò significa, secondo Jacobelli, che c’è molto da temere dal racconto quale strumento promozionale. E tuttavia, se oggi sono accessibili i segmenti di verità cui alludeva Manca nel discorso introduttivo, questi non si trovano senz’altro tutti sulla medesima linea, ma sono con-fusi, ossia fusi insieme in una mescolanza strutturale di contenuti che fa assumere a ciascuno di essi una forma diversa secondo il fruitore.

La riflessione di MIMMO CANDITO (La Stampa), in diretta in teleconferenza dall’Afghanistan, ha inteso mostrare l’importanza della funzione del ruolo dell’inviato nei casi di conflitto bellico. Candito ha innanzitutto ricordato che la prima volta che il racconto di guerra non fu affidato agli ufficiali stessi che l’avevano combattuta fu nel 1854, quando cioè il Times inviò un corrispondente direttamente sul luogo degli scontri (nel caso specifico la si trattava della Crimea). Per la prima volta non prevalsero l’etica e la retorica, ma fu riportata la guerra nella sua crudezza: la narrazione di nuovo tipo ebbe un’efficacia tale da provocare la caduta del governo inglese. Candito ha dunque affermato l’esigenza di distinguere chiaramente la narrazione mitologica da quella reale. Quest’ultima deve esser guidata dalla costante consapevolezza da parte del narratore che vi è un referente esterno del racconto che rappresenta un criterio di correttezza. La realtà rappresenta l’obiettivo cui la narrazione – almeno ottativamente – tende. Il giornalista assume questo come suo dovere perché la società gli affida un compito di straordinaria importanza: quello di contribuire alla formazione di un’opinione pubblica critica. Nonostante tutto questo la condizione attuale è tale, secondo Candito, che il discrimine tra vero e presumibile appare sempre meno importante, come anche perde di importanza il messaggio. Se il 90% della conoscenza disponibile è filtrata dai mezzi di informazione, ciò significa che sarebbe indispensabile regolare questi sulla realtà invece di adeguarli alle esigenze della TV, ossia dell’apparenza che si consuma nell’attimo del consumo. Candito ha concluso il suo intervento affermando che è solo per un residuo di illuminismo che si continua a parlare di «opinione pubblica» laddove ci si trova in presenza di quella che in realtà è una «massa indistinta».

La possibilità di una dissoluzione dell’autore, riguarda, secondo IGOR MAN (La Stampa), soltanto gli autori mediocri, che inevitabilmente scompaiono trascinati da meccanismi che non governano. Ma la figura del giornalista-autore è ben lungi dal dissolversi: pur senza spingersi a riproporre l’idea della stampa come «quarto potere» va tuttavia riconosciuto che nelle mani dei giornalisti è il potere di fare del bene e di fare del male, ossia di raccontare la realtà reale o torturare i fatti per estrarne la realtà voluta. Igor Man ha quindi rievocato la propria esperienza della guerra del Vietnam, durante la quale agli operatori dell’informazione era consentito raccontare senza censura alcuna gli avvenimenti di cui erano stati testimoni, e ha elaborato un paragone con la realtà attuale che apparei profondamente diversa: oggi nulla è visibile e, per consentire il racconto di questo nulla, si è trovata la formula dell’embeddement. Man ha concluso il suo intervento sottolineando l’importanza di riconoscere e tener ben ferma la distinzione tra comunicazione e informazione, intendendo con quest’ultimo termine un messaggio che sia passato responsabilmente per il filtro dei fatti.

GIOVANNA BOTTERI (TG3 RAI) ha proposto una riflessione sulla propria esperienza di inviata sul territorio iracheno in occasione dell’ultimo conflitto, raccontando come anche questa guerra sia stata preparata in modo tale da che non fosse possibile vedere nulla. I giornalisti presenti sono stati sottoposti a pressioni fortissime perché abbandonassero l’Iraq: sia da parte delle autorità militari americane, preoccupate di impedire la divulgazione dell’aspetto miserrimo della guerra, sia da parte degli stessi iracheni, interessati a lasciare ad Al-Jazeera il monopolio dell’informazione sul conflitto. Circa trecento giornalisti hanno lasciato il teatro degli scontri e ne sono rimasti circa 100 con l’obiettivo – che si è poi rivelato difficilissimo da perseguire – di raccontare gli effetti della guerra sulla popolazione irachena.

Lo scrittore e sceneggiatore VINCENZO CERAMI ha preso le mosse dall’analisi della differenza tra lo scrittore e il narratore, classificandosi decisamente nella seconda categoria. Mentre lo scrittore è tale in quanto sviluppa una lingua propria, il narratore si ispira alla realtà, appropriandosi dei diversi linguaggi che essa offre e quasi nascondendosi dietro di essi. La riflessione di Cerami si è quindi concentrata sul legame tra conflitto e narrazione, stretto al punto tale che non si dà narrazione se non del conflitto. È impossibile, secondo Cerami, raccontare una storia felice, perché solo il dolore si presta ad essere raccontato: questo implica che tutte le storie in fondo sono uguali. In tutte è necessaria la presenza di un protagonista e di un antagonista, ossia di un conflitto tra due sistemi di valori, che nello scontrarsi creano un trauma profondo. Lo scontro crea una dinamica, uno sviluppo in cui agiscono i meccanismi che conducono alla soluzione. Questa morfologia elementare vale per ogni tipo di storia e somiglia alla vita stessa dell’essere umano. Nel bambino prevale il principio di piacere: in seguito alla sottrazione di questo bene prezioso si innesca una crisi che dà luogo al viaggio mediante il quale l’adulto tenta di superare il dramma di questa perdita originaria. Questo significa che la narrazione non può che accadere retrospettivamente, mediante la figura dell’analessi, perché è necessario trovare un punto a partire dal quale il succedersi delle diverse tappe rivela il suo senso. La fabula non procede secondo una cronologia reale, perché, appunto, la realtà come tale non può essere raccontata: ma la realtà raccontata è forse più vera di quella reale.

GIANNI RIOTTA, del Corriere della Sera, in teleconferenza da New-York ha raccontato il conflitto attuale nei termini di ciò che si può definire la «prima guerra globale»: una guerra in cui tutto e tutti sono coinvolti. Stanti queste modalità di conflitto il controllo dei media diventa fondamentale, come hanno ben compreso tanto le forze occidentali quanto il terrorismo internazionale, e questo provoca il naufragio della speranza che l’avvento di Internet possa limitare il controllo della censura sull’informazione: appare vero esattamente il contrario. Secondo Riotta non c’è da stupirsene: non si tratta infatti che dell’ennesima verifica della legge per cui ogni innovazione tecnica comporta, accanto al progresso, una forma di inquinamento. Inquinamento che, nel caso di Internet, consiste nel fatto che le fonti autorevoli sono messe sullo stesso piano di un qualunque privato cittadino che voglia commentare i fatti dal proprio sito. Tutto è rimesso ad un utente che deve essere in grado di operare da solo il vaglio di ciò che legge, con la consapevolezza però che più che aspirare ad un’oggettività in linea di principio irraggiungibile sarebbe più opportuno puntare all’equanimità, ossia al porsi con un animo equo e privo di pregiudizi di fronte alla sovrabbondanza di informazioni offerteci dalla nuova tecnologia.

L’importanza della dimensione autorale nella professione giornalistica è stata con decisione affermata da WLODEK GOLDKORN (L’Espresso), il quale ha sottolineato come sempre più al giornalista è richiesto di ricoprire il ruolo di vero e proprio narratore, di porsi cioè come qualcuno capace di offrire un senso alle storie che racconta. Questo è tanto più vero per chi lavora per un settimanale (piuttosto che per un quotidiano): la consapevolezza di scrivere quando tutti gli altri avranno già scritto, e già si saranno espressi, sul medesimo argomento costringe ad immaginare il proprio pezzo secondo canoni e strutture di un racconto vero e proprio. Gli elementi costitutivi della soggettività di chi scrive, la sua biografia personale, la sua cultura, il patrimonio di letture fatte diventano fondamentali nel tipo di interpretazione della realtà – e in particolare del conflitto – che questi offre. Secondo Goldkorn è strana una società che si preoccupa del cosiddetto embeddement dei giornalisti, come se fosse una condizione in qualche modo evitabile e non un portato strutturale di ogni racconto in quanto tale. In un certo senso era ben più che embedded chi ha narrato il racconto biblico di Davide e Golia e non sarebbe difficile immaginare, e ri-raccontare, la medesima sequenza di eventi dal punto di vista di Golia, trasformandone completamente il senso con un semplice cambio di prospeettiva. Goldkorn ha concluso con un’esemplificazione delle considerazioni svolte e del proprio metodo di lavoro illustrando il modo in cui in alcuni suoi articoli la descrizione di conflitti «oggettivi» (Intifada, 11 settembre) era stata consapevolmente filtrata dalla propria biografia personale.

Il tema in discussione implica, secondo MARIO PERNIOLA, docente di Estetica all’Università Tor Vergata di Roma, due poste in gioco. La prima verte sulla questione conflitto/comunicazione; la seconda concerne il problema del racconto e quello connesso della sparizione dell’autore. Sul primo punto, riprendendo l’opposizione tra comunicazione e informazione elaborata da Fitoussi, Perniola ha inteso mostrare la tesi per cui nella comunicazione mediatica va perduta la percezione degli opposti e la possibilità di una logica che mostri la contraddizione tra gli stessi. Mentre la pubblicità commerciale è un’informazione che il consumatore può smentire constatando di persona l’inefficacia del prodotto acquistato, la comunicazione massmediatica rende impossibile per principio qualsiasi forma di verifica, destabilizzando in tal modo la stessa distinguibilità logica del vero e del falso. Le parole vengono progressivamente svuotate di significato: il bellicismo svuota di significato la parola «guerra», come il pacifismo fa col termine «pace». L’epoca della comunicazione – la nostra – è, da questo punto di vista, una malattia contro cui stiamo sviluppando gli anticorpi. Per quanto riguarda il secondo punto, la dissoluzione dell’autore, Perniola ha dichiarato ingiustificato, dal suo punto di vista, un eccessivo pessimismo. Una volta accettato che non v’è più spazio per le grandi narrazioni, o per una storia universale, il collegamento tra comunicazione e new-economy, che supera l’autore in direzione di think tanks, estende all’economia il sapere e la cultura valorizzando così enormemente il ruolo degli intangibles. Stante il rapporto sapere-potere questo apre straordinarie possibilità: gli autori superano le barriere e le nuove conoscenze ed esperienze hanno un potenziale che non passa più per le ideologie.

QUARTA SESSIONE: Chi garantisce? Aspetti normativi in un sistema a responsabilità diffusa

GIUSEPPE DE VERGOTTINI, docente di Diritto costituzionale presso l’Università di Bologna, ha introdotto i lavori sottolineando come il collegamento tra la tematica del conflitto (nella gamma possibile di significati del termine) e il tema dell’informazione (della libertà d’informazione e della ripercussione della realtà del conflitto esterno sul mondo dell’informazione) pone problemi di ordine giuridico oltre che deontologico. La premessa dalla quale, secondo De Vergottini, è necessario prendere le mosse è che l’informazione è coessenziale ai principi della democrazia, perché tutto quello che riguarda il modo di produrre e ricevere informazione riguarda una questione di libertà. È indispensabile che abbia luogo una dialettica vera tra chi fa informazione, e deve disporre di un suo spazio di libertà, e chi la riceve. Il costituirsi di una libera opinione è coessenziale alla politica e marca una differenza essenziali con sistemi politici che riconoscono formalmente questo quadro giuridico, ma poi impediscono di fatto la libertà dell’informazione. A questo si aggiunge, sostiene De Vergottini, un secondo problema riguardante la necessità o meno di regole codificate ed esterne al mondo dell’informazione. Il problema è capire quando si possa parlare di informazione libera in un sistema politico simile al nostro, e quando invece si debba considerare l’informazione condizionata. Discorso, questo, che ovviamente non vale solo per il mezzo televisivo e che investe il problema del rapporto tra libertà di informazione e rapporti politici: non è un caso, secondo De Vergottini, che in questo momento l’Italia sia sotto osservazione del Parlamento Europeo.

L’intervento di VINCENZO ZENO ZENCOVICH, docente di Diritto costituzionale all’Università di Bologna, si è incentrato sul rapporto tra informazione e interventi armati. Dal momento che questi ultimi richiedono un sostegno non soltanto politico-istituzionale, ma anche da parte dell’opinione pubblica, è chiaro che la questione dell’informazione diventa essenziale. Si innesta un circuito complicato tra i militari, che, pur avendo bisogno di legittimarsi presso l’opinione pubblica, tentano di rendersi impermeabili al flusso di informazioni in uscita, e i giornalisti che sono liberi per definizione. Questa situazione di fatto sta dando luogo ad una regolamentazione minuziosa relativa al tipo di informazioni che possono essere erogate, nonché al ben noto fenomeno dell’embeddement. Fenomeno che, per un verso, non è affatto nuovo (si pensi al documentario di Frank Capra sullo sbarco in Normandia) e che ora però, per altro verso, è stato oggetto di un’enunciazione di principio. I media devono assicurare una copertura attraverso la partecipazione di alcuni componenti alle operazioni: questa è la policy attuale degli USA (e non soltanto loro). Il problema consiste, secondo Zeno Zencovich, nel capire fino a che punto questo contratto sia accettabile e giuridicamente valido; e – cosa ancor più importante – se la soluzione delle difficoltà che ne conseguono sia da cercarsi in un incremento di regolamentazione o in una valorizzazione della deontologia professionale, ovvero in una rinnovata riflessione sulla professionalità del giornalista.

Dopo aver rilanciato la domanda di Zeno Zencovich, chiedendo se sia preferibile poca o nessuna informazione, il moderatore della sessione dà la parola a MAURO MICCIO, docente di Teoria e tecniche della comunicazione all’Università di Catania, che si è dedicato innanzitutto ad un chiarimento dei termini in questione, in particolare: pluralismo e obiettività. Per quanto riguarda il primo, Miccio ha rilevato che esso implica l’idea di qualcosa che si viene ad aggiungere a qualcos’altro, così da costituire l’origine di una prima forma di conflitto. Per dimostrare come non basti la pluralità di opinioni, se non è accompagnata dalla pluralità delle fonti, Miccio ha ricordato che nel 1938 il numero delle testate giornalistiche non era inferiore a quello di oggi. Quanto al secondo termine in gioco, obiettività, esso non implica altro che quella certa esteriorità che caratterizza i «racconti» non influenzati da preconcetti e interessi. Emblematico il caso di Indro Montanelli, che non ha mai seguito la regola prima del giornalismo anglosassone di separare il fatto dal commento, o quello di Hemingway che può essere a buon diritto definito il primo giornalista embedded della storia. Se ne conclude, secondo Miccio, che l’informazione veritiera si ottiene soltanto dichiarando l’identità dei soggetti emittenti. Nella seconda parte del suo intervento Miccio si è intrattenuto sul problema del fruitore come soggetto da garantire e su tutto ciò che questo implica in termini di regolamentazione internazionale, che appare ancora largamente deficitaria.

Secondo CLAUDIO PETRUCCIOLI, presidente della Commissione Parlamentare «Indirizzo e vigilanza dei servizi radiotelevisivi», è necessario riflettere sul potere dell’«immagine» nell’ambito del mezzo televisivo, la quale sembra poter essere esibita come certificato di autenticità. A dispetto del fatto che spesso si tratta di immagini di repertorio, che non hanno nulla a che fare con la notizia che viene comunicata, la loro presenza sembra comunque sufficiente ad accreditare l’informazione data. Un confronto con il passato mostra chiaramente come nei telegiornali sia enormemente cresciuto il peso dell’immagine rispetto al volto di chi parla. A differenza di quanto accadeva prima oggi sono le immagini, e non i conduttori, a trasmettere i contenuti importanti. Lo strapotere dell’immagine attesta un cambiamento nel modo di fare informazione che, secondo Petruccioli, è da collegarsi ad altri fenomeni come la scomparsa pressoché totale del genere dell’inchiesta giornalistica. Questo apre una serie di questioni che debbono essere affrontate sul terreno proprio dell’informazione, senza mutuare, come si è soliti fare, linguaggi e categorie della sfera politica. Prima fra tutte quella di «pluralismo», con la quale si discute del potere politico sull’informazione e non dell’informazione come tale. Il problema del controllo pubblico sull’informazione è però un problema grave e diverso da quello dell’immagine. La legge Gasparri aumenta il controllo pubblico in un modo che è tanto più grave quanto più la situazione è profondamente diversa rispetto al passato. In un quadro di alternanza (che non c’era nel periodo dei governi democristiani che potrebbe essere definito di «democrazia organicistica») il servizio pubblico, esposto alla parte politica che risulta di volta in volta vincente, rischia di perdere la propria identità. La continuità delle cariche diventa impossibile se muta con il mutare dei governi; così come diventa impossibile qualunque progetto a lungo termine. Con questa legge, secondo Petruccioli, sono stati fatti passi indietro enormi, come l’istituzione di una commissione per la qualità del servizio pubblico dalla quale dovrebbe dipendere l’aumento o la diminuzione del prezzo del canone: si tratterebbe, per contro, di pervenire a precise attribuzioni di responsabilità all’interno dell’azienda, come, ipotizza Petruccioli, la creazione di una sorta di «direttorio» elettivo, ma indipendente (sul modello di quanto accade nella Banca d’Italia).
Nel passare la parola a ACHILLE CHIAPPETTI, docente di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università «La Sapienza» di Roma, DE VERGOTTINI fa notare come non sempre il legame al governo implichi un servizio pubblico scadente e cita il caso dell’Inghilterra, dove prevale comunque la professionalità. Chiappetti ricava dal titolo della sessione la questione: perché si garantisce? In particolare si interroga sulla necessità delle norme che definiscono positivamente quei i limiti della libertà d’espressione che a livello costituzionale sono espressi in modo puramente negativo. Secondo Chiappetti è tutt’altro che sicuro che l’assenza di regole provocherebbe il caos, così come è dimostrato dalla situazione della stampa, che conosce meno vincoli del sistema televisivo, e che è ampiamente uniformizzata dalle esigenze del mercato. l’unica possibilità per lo Stato di intervenire positivamente sul mezzo stampa è quella di sostenerlo non di irreggimentarne l’operato. Il caso della televisione è diverso: qui l’unico limite è dettato dalla scarsità delle frequenze, anche se, osserva Chiappetti, non tutte sono state distribuite: e non v’è motivo apparente di questa limitazione. Il punto è che le garanzie non sono viste in funzione di qualche esigenza altra, ma come fine in sé. Sarebbe invece opportuno tenere nel giusto conto il fatto che la Costituzione non pone vincoli espliciti e positivi in proposito.
ANTONIO PILATI, commissario AGCOM, ha preso le mosse da alcune considerazioni sulle scorrettezze della BBC durante la guerra in Iraq e, in particolare, sul fatto che un simile infortunio sia capitato al più quotato dei servizi pubblici. Il caso fa riflettere, in modo particolare, su quanto sia sfuggente un obiettivo come quello della garanzia e su come questo sia una conseguenza inevitabile, connaturata alla scelta che abbiamo operato circa il sistema radiotelevisivo, che è stato organizzato secondo un modello antitetico a quello della stampa. Mentre per questa si è ridotto al minimo il numero dei controlli esterni, il modello elettronico è stato da subito monopolistico, il che ha dato luogo ad una preponderanza della politica e alle feroci polemiche fino alla legge del 1975. All’origine di questa scelta vi era una ragione: la scarsità delle frequenze; ragione che oggi le trasformazioni tecnologiche hanno reso insussistente. E infatti per la radio il modello monopolistico non sussiste, di fatto, più. Per quanto riguarda la televisione, allora, non si tratta di una questione di tecnologie insufficienti, ma della riluttanza ad abbandonare il modello culturale scelto. Passare all’altro modello comporta una vera e propria rivoluzione culturale che appare, secondo Pilati, di difficile realizzazione.
EMILIO ROSSI, Presidente del Comitato di applicazione del codice TV e minori, ha ripreso la questione della mediatezza di una realtà che si dispiega sempre tra un narrante e un narratario: situazione che ovviamente si complica notevolmente nel caso in cui si tratti di una realtà conflittuale. La comunicazione di tale realtà ricorre inevitabilmente ad una molteplicità di strumenti tra i quali appare di particolare rilevanza la retorica, che interviene già al livello della titolazione. È interessante il caso della pagina economica del Corriere della Sera che si presenta come un concentrato di astuzie grafiche. Di fronte a questa situazione in cui la realtà si indebolisce e di fronte all’esigenza irrinunciabile di formare un’opinione pubblica critica, il compito è, secondo Rossi, quello di trovare un nuovo nomos. L’opposizione tra nomos della terra e del mare, su cui rifletteva Schmitt, non vale evidentemente più. Come attesta però una lettera a Jünger, nel quale il giurista fa riferimento alla figura cabbalistica del mostro alato Ziz, lo stesso Schmitt aveva intravisto la necessità di pensare un nomos dell’aria, del medium cioè degli aerei e delle onde radio, per regolamentare il quale ci vogliono leggi nuove e diverse, che non possono prescindere da un forte richiamo alla responsabilità individuale.


Agenda:

MERCOLEDI 26

09,30
Registrazione dei partecipanti

09.45 Introduzione ai lavori
Enrico Manca (Presidente ISIMM), Laura Paoletti (Segretario Generale Fondazione Nova Spes)

10.15
I SESSIONE: Chi impagina? Meccanismi e soggetti della selezione

Moderatore: Massimo Fichera (Vice Presidente ISIMM)

Interventi di:
Mimmo Candito (La Stampa), Emilio Carelli (TG24 SKY TV), Antonio Di Bella (TG3 RAI), Carlo Jean (Studi strategici, LUISS Roma), Pierluigi Magnaschi (ANSA), Ezio Mauro (La Repubblica), Enrico Mentana (TG5 Mediaset), Peppino Ortoleva (Comunicazioni di massa, Univ. di Torino), Dennis Redmont (Associated Press)

13.30 Pausa pranzo

14.45
II SESSIONE: Chi e come legge? Problemi di fruizione, vecchie e nuove medialità

Moderatore: Alberto Gaston (Clinica psichiatrica, Univ. La Sapienza Roma)

Interventi di:
Alberto Abruzzese (Sociologia della comunicazione di massa, Univ. La Sapienza Roma), Sebastiano Bagnara (Ergonomia cognitiva, Politecnico di Milano), Edoardo Fleischner (Progettista multimediale – Lumiq), Giuseppe Richeri (Strategie dei media, Univ. di Lugano), Luca Toschi (Teoria della comunicazione, Univ. di Firenze)

16.30
III SESSIONE: Chi scrive? La narrazione del conflitto

Moderatore: Vittorio Mathieu (Accademico dei Lincei)

Interventi di:
Giovanna Botteri (TG1 RAI), Vincenzo Cerami (Scrittore e sceneggiatore), Duilio Gianmaria (TG1 RAI), Wlodek Goldkorn (L’Espresso), Gian Piero Jacobelli (Technology Review), Monica Maggioni (TG1 RAI), Igor Man (La Stampa), Mario Perniola (Estetica, Univ. Tor Vergata Roma), Gianni Riotta (Corriere della Sera), Antonio Scurati (Sociologia della comunicazione, Univ. di Bergamo)


GIOVEDI 27

09.30
IV SESSIONE: Chi garantisce? Aspetti normativi in un sistema a responsabilità diffusa

Moderatore: Giuseppe De Vergottini (Diritto costituzionale, Univ. di Bologna)

Interventi di:
Augusto Barbera (Diritto costituzionale, Univ. di Bologna), Achille Chiappetti (Istituzioni di diritto pubblico, Univ. La Sapienza Roma), Mauro Miccio (Teoria e tecnica della comunicazione, Univ. di Catania), Claudio Petruccioli (Presidente Commissione Parlamentare indirizzo e vigilanza servizi radiotelevisivi), Antonio Pilati (Commissario AGCOM), Emilio Rossi (Presidente Comitato di applicazione codice tv e minori), Vincenzo Zeno Zencovich (Diritto dell’informatica e delle nuove tecnologie, Univ. Roma Tre)

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