Incontro osservatorio – Conflitto e identità: Per una riflessione su conflitto e identità

17 Febbraio 2004, Roma
Fondazione Nova Spes, Via Piemonte 127

Primo incontro Osservatorio.

Chi posso in generale riconoscere come mio nemico?
Evidentemente soltanto colui che mi può mettere in questione.
[…] e chi può mettermi realmente in questione?
Solo io stesso. O mio fratello.
(C. Schmitt)

L’identità non è qualcosa di dato: è sempre il risultato di un’azione, in virtù di cui si traccia una demarcazione, mai definitiva, tra identico e diverso, tra interno ed esterno, tra proprio ed estraneo, tra amico e nemico. Il conflitto, dunque, non è un incidente di percorso: è il motore stesso del processo di costruzione del sé (persona, gruppo, civiltà), che deve faticosamente venire a patti con il debito nei confronti di ciò “contro” cui guadagna la propria identità. Lo scontro-incontro tra “sé” e “altro” è un nodo ineludibile che vale la pena di essere esplorato e che emerge ogni volta che un’identità, che erroneamente si dava per scontata, viene messa in questione. Che cosa è “sé” e che cosa è “altro” quando un organismo è malato? quando un individuo è abitato da tensioni che non governa e che lo conducono oltre la soglia che separa il normale dal patologico? quando una morale condivisa viene lacerata da conflitti tra doveri? quando una civiltà sente minacciati i confini che la definiscono? Quanto simmetria e asimmetria della relazione, nel loro radicalizzarsi o avvicendarsi, strutturano il conflitto e guidano ciascuna delle parti verso gli sbocchi perseguiti?

  • L’identità in costruzione
  • Il sé, l’altro, gli altri: conflitto e riconoscimento
  • Identità personale, identità culturale, identità religiosa

Atti:

Relazione di Vittorio Mathieu e discussione

Pierluigi VALENZA ha aperto i lavori spiegando come l’incontro, che per la tematica trattata si inserisce evidentemente nell’ambito del progetto di ricerca Pensare il conflitto. Costruire la pace, inauguri una modalità operativa nuova, che risponde all’esigenza della Fondazione di proporsi quale punto di osservazione privilegiato di questioni individuate come prioritarie nell’ambito del dibattito pubblico, come laboratorio di idee e come spazio di confronto libero dai vincoli imposti dalle esigenze tipiche delle iniziative convegnistiche tradizionali. Sono questi intenti, più che un tema specifico, a costituire il filo conduttore del ciclo di iniziative denominato Incontri Osservatorio, di cui la Fondazione darà regolarmente conto sul sito.
Nell’introdurre la relazione di Mathieu, Valenza ha inteso inserirla nel contesto della ricerca svolta sin qui da Nova Spes e ha sottolineato alcuni snodi teorici che sono emersi come significativamente problematici e che, proprio perciò, potrebbero fungere da linee guide per il prosieguo dell’analisi. Anzitutto si tratta di interrogarsi sull’opportunità di restringere la nozione di conflitto all’ambito umano, così da comprenderne l’estensione per analogia in ogni altro ambito come un uso legittimo, ma improprio. Questo problema, esplorato nell’incontro su Conflitto e vita, apre già in certa misura, secondo Valenza, alla difficile ma centralissima questione della maniera in cui si deve concepire la strutturalità del conflitto, inteso come motore di processi non necessariamente negativi. Basta questo a evidenziare che il termine “conflitto” necessita di essere perimetrato meglio e di essere distinto da fenomeni affini quali, per esempio, la competizione o la concorrenza. A conferma di ciò, Valenza ha ricordato la distinzione tra conflitti di interesse (governabili) e conflitti di identità (che invece possiedono un potenziale distruttivo molto più elevato, e mostrano una eventuale patologia del mercato stesso). Il che evidenzia, a sua volta, la necessità di precisare il rapporto tra Conflitto e regole.

La relazione di Vittorio MATHIEU ha tematizzato il rapporto tra conflitto e identità. Mathieu ha sottolineato in prima battuta come ogni identità non sia un dato di fatto, ma il risultato di un atto. Anche A = A, espressione dell’identità più semplice, è infatti un qualcosa di posto, è cioè un’identità solo in quanto si pone che sia tale. A maggior ragione non è data, ma, appunto, posta, l’identità personale: tanto è vero che, non sussistendo alcuna uguaglianza apparente della persona con se stessa dalla nascita alla morte, è necessario attestare la permanenza di un’identità lungo il corso dell’esistenza, per esempio per mezzo di una “carta d’identità”. La biometria e lo studio di certe caratteristiche fisiche (impronte digitali, DNA, persino l’odore) si occupano proprio di individuare criteri efficaci nello stabilire in modo non equivoco un’identità personale. Ma la necessità di ricorrere a questi mezzi dimostra che l’identità personale, essendo concreta e non astratta (come l’eguaglianza formale di cui sopra), non è fondata in realtà su nessuno di essi e deve piuttosto essere rintracciata nella memoria. Non a caso, ha ricordato Mathieu, Leibniz definiva la materia come ciò che è carens recordatione. Gli oggetti infatti, mancando di memoria, necessitano di essere identificati da un atto esterno. Il problema della memoria in relazione all’identità è stato ampiamente trattato nell’ambito della storia del pensiero: basti pensare alla discussione relativa alla possibilità di premiare o punire qualcuno in una vita futura; possibilità che presuppone, ancora una volta, che costui sia in grado di ricordare il proprio comportamento nella vita precedente e sia, in virtù di ciò, lo stesso individuo. Significativa anche l’analogia, proposta da Agostino nel De Trinitate, tra la facoltà umana della memoria e Dio Padre in quanto principio che fa essere e perciò identifica. Incidentalmente Mathieu ha osservato come il discorso potrebbe esser ulteriormente precisato esaminando la possibilità di una memoria (inconscia) necessaria a garantire la continuità di qualsiasi processo, come per esempio il movimento: la fisica subatomica, per esempio, è costretta a trattare con particelle che non si riescono a seguire in tutto il loro percorso e che dunque risultano difficili da identificare.
Mathieu ha quindi sottolineato come anche la determinazione dell’identità di entità «impersonali» sollevi problemi analoghi e ha esaminato il caso dei numeri reali non razionali (il cui esempio classico è la misura della diagonale del quadrato): l’identità di tali numeri è ben definita ma non determinabile, e può quindi essere ottenuta solo mediante un metodo di approssimazione. L’approfondimento di quello che nel Seicento veniva denominato “labirinto del continuo” ha portato, nell’Ottocento, al dibattito tra Cantor e Dedekind sui procedimenti di definizione del numero. Mentre Cantor utilizza le successioni che tendono allo stesso limite, Dedekind sviluppa invece il metodo delle partizioni: ciò che risulta interessante, secondo Mathieu, è che sembra si possa parlare in questo caso di una molteplicità di identità in riferimento ad una stessa cosa.
Un ponte tra l’identità di tipo matematico e quella di tipo personale può essere individuato nell’ambito artistico. Un’opera d’arte, creata da un artista, è passibile di molteplici interpretazioni e successivamente di molteplici fruizioni destinate a moltiplicare ulteriormente le interpretazioni. Si arriva fino al punto di riferirsi alla «Settima di Beethoven» di Von Karajan, alla «Settima» di Toscanini, e così via. Per quanto un autore moltiplichi le indicazioni relative all’esecuzione, queste non saranno mai onnicomprensive; il che rende necessaria l’interpretazione. Già questo lascia intravedere perché nel concetto di identità sia implicito quello di conflitto: la necessità dell’interpretazione perché un’identità si realizzi implichi, il fatto cioè che l’identità non sia mai autosufficiente, implica la possibilità che ciascuna interpretazione tenda a «farsi valere» come la migliore di contro a tutte le altre.
La caratteristica della non-autosufficienza vale a maggior ragione per quell’ identità che si realizza attraverso un atto di identificazione interno, ossia per l’identità personale. Quest’ultima implica necessariamente un rapporto interpersonale perché non ci identifica mai da soli. Quanto più l’identificazione è personale, tanto più essa sembra presupporre l’alterità. Mathieu ha rilevato come nell’ambito della tradizione cristiana questo sia stato affermato – con grande scandalo delle altre religioni monoteiste – persino sul piano teologico, come dimostra il pensiero della Trinità.
È significativo che ciò sia osservabile persino nell’ambito della scienza, che pure aspira a determinare identità e verità oggettive: identità, cioè, che dovrebbero per definizione escludere qualsiasi conflitto. A riprova di ciò Mathieu ha trattato alcuni casi macroscopici di conflitti violentissimi suscitati da teorie che la comunità scientifica riteneva – per motivi diversi, ma comunque extrascientifici – da rigettare (sono state esaminate, in particolare, le vicende di figure come quelle di Sermonti, Harp e Kammerer).
Nel riassumere la propria posizione Mathieu ha concluso ribadendo che l’identità è sempre il risultato di un’attività e dunque ha sempre bisogno di essere interpretata. Da ciò derivano una costitutiva non autosufficienza (che nel caso dell’identità personale significa interpersonalità) e di conseguenza l’inevitabilità del conflitto; il quale poi può essere costruttivo o distruttivo.

Ugo MORELLI ha introdotto le proprie considerazioni di discussant riscontrando la profonda consonanza tra quanto sostenuto da Mathieu e alcuni significativi elementi emersi nel corso del proprio impegno teorico e pratico nell’ambito della gestione dei conflitti: si è soffermato in particolare su tre aspetti specifici.
In primo luogo, Morelli ha sottolineato la portata teorica insita nell’accordare cittadinanza al conflitto nell’ambito dell’evoluzione della scienza. Molti degli avanzamenti delle scienze umane, e della psicologia in particolare, provengono dall’ibridazione di codici disciplinari: la tendenza, secondo Morelli ancora troppo diffusa, a trattare il conflitto come uno “straniero”, come un evento eccezionale rispetto a processi di norma lineari deriva dal bisogno generale di rassicurazione e, in campo teorico, dai vantaggi garantiti da un paradigma certo. Tale tendenza dovrebbe quindi essere superata (come in parte si è cominciato a fare) attribuendo al conflitto il carattere di realtà strutturale, capace di generare forme di vita e di organizzazione.
Per quel che riguarda il secondo punto, Morelli ha esposto la necessità di una riconsiderazione dell’idea di limite e di incompletezza. Posto che condizione di possibilità del costituirsi di una mente propria è l’esistenza di un’altra mente, come dimostra chiaramente, per esempio, il fatto che l’alterità della madre è indispensabile allo sviluppo del bambino, ne risulta che l’unità di analisi da cui partire non è più il soggetto, ma la relazione: impostazione questa comunque sempre più affermatasi nelle scienze umane e in particolare nella psicologia, e decisiva per distinguere il conflitto dall’antagonismo. Accettare l’altro come condizione della propria esistenza richiede, per Morelli, di cambiare in positivo la semantica del limite, tuttora generalmente compreso come un termine indicante una mancanza o una negatività da superare. La depressione del soggetto, in senso tecnico, cioè il riconoscimento della propria incompletezza, è infatti ritenuta universalmente dagli esperti il primo passo verso l’apertura ad un possibile dialogo e dunque ad una possibile risoluzione del conflitto. Ma ciò non significa solo mettere in discussione, eventualmente, il paradigma dell’homo oeconomicus, ma l’individualismo assiologico in generale.
Infine Morelli ha ripreso il tema della memoria, richiamando la teoria del rapporto mente/cervello elaborata da Edelman nel Presente ricordato, secondo cui ogni processo mnestico è una reinterpretazione della realtà, in un gioco sistematico e ricorsivo tra persistenza ed emergenza, che però non dà luogo ad un relativismo volgare. Esisterebbe cioè una persistenza che però non è data ma si realizza solo nel susseguirsi di emergenze sistematiche, in un modo che si discosta dall’evolversi tipico dei processi lineari e che rappresenta, nello specifico, un paradigma significativo per l’interpretazione e la gestione dei conflitti. Analogamente ciò che consente di far evolvere i processi di pacificazione è una dinamica di continua rielaborazione e rinegoziazione di quanto che man mano emerge nel corso del processo stesso. Il che non implica affatto che i soggetti coinvolti nella negoziazione debbano rinunciare alla propria autonomia: anzi, una delle cause di crisi dei processi di pace, a tutti i livelli, consiste proprio nel proporsi di convincere i confliggenti a dismettere la loro autonomia a vantaggio di quella dell’altro; obiettivo che, in ultima analisi, verrebbe a coincidere con una soppressione del conflitto e non solo dell’antagonismo.

L’intervento di Stefano ZAMAGNI ha sottolineato come, a partire dalla storia dell’economia, sia possibile distinguere tra gestioni del conflitto secondo un modello «gerarchico» (per cui si affida il potere ad un’autorità) e gestioni secondo il modello proprio del mercato quale viene teorizzato dall’umanesimo civile che insiste sul nesso libertà–eguaglianza. Il mercato, che consiste in una negoziazione tra soggetti per definizione paritari e liberi, trasforma i conflitti di identità in conflitti di interesse operando un disinnesco del potenziale distruttivo, la cui efficacia non è stata ancora colta appieno nemmeno dagli addetti ai lavori. Ciò non significa, ha proseguito Zamagni, che il modello gerarchico sia completamente scomparso dal mercato: l’impresa, infatti, si presenta come una realtà sui generis che perpetua nell’ambito del mercato una struttura gerarchica; struttura che si è imposta assai più nell’ambito europeo che non in quello anglo-americano, come attesta il fatto che proprio gli USA abbiano avvertito l’esigenza della prima legge anti-trust (1891). Nell’era post-fordista, tuttavia, anche l’impresa si rivela insufficiente, cosicché il modello gerarchico entra in crisi anche a questo livello: mentre, infatti, è possibile imporre al lavoratore l’esecuzione di certi compiti materiali, risulta per contro impossibile ottenere dal dipendente quella collaborazione in termini di condivisione di conoscenze che è oggi l’elemento primario della produzione. È su questo che le vecchie teorie di organizzazione d’impresa falliscono; ed è per questo che si assiste ad una riesplosione di conflitti identitari che il modello gerarchico dell’impresa non riesce più a contenere. Secondo Zamagni scontiamo un vero e proprio deficit culturale che ci impedisce di individuare soluzioni che non siano varianti o «aggiustamenti» di teorie superate. La possibilità di tenere adeguatamente conto di nuovi fenomeni implica invece l’abbandono del paradigma dominante. In conclusione Zamagni, rifacendosi più direttamente a quanto sostenuto da Mathieu, ha sottolineato la necessità di introdurre una distinzione chiara tra: a) categorie «aritmomorfiche», che definiscono un ambito di conflitti relativi al solo soggetto interpretante e non all’oggetto interpretato (come è appunto il caso del «conflitto» tra Cantor e Dedekind, che non riguarda i numeri) e categorie «dialettiche», che individuano strutture intrinsecamente conflittuali; b) identità «data» e «acquisita» (ossia scelta), esaminando come nello stesso individuo possano convivere identità multiple e potenzialmente in conflitto tra loro (fenomeno, questo, tipico di una società globalizzata).

Nel rispondere a Zamagni, MATHIEU ha innanzitutto ribadito come il soggetto possa e debba sempre scegliere la propria identità in un rapporto con altri che implica costantemente un potenziale conflitto: e questo vale persino per l’opera d’arte, la cui identità è in certa misura frutto di una scelta da parte dell’artista. Relativamente alla crisi del modello fordista dell’impresa, Mathieu ha rilevato l’emergere del modello alternativo del network, secondo cui ogni reparto di un’azienda è in qualche modo un’azienda a sé, che contratta la propria attività con gli altri reparti: modello che comunque non può essere applicato fino al limite estremo dell’individuo. Mathieu ha concluso sottolineando l’importanza della contrattazione e del «margine di manovra» che questa implica, in mancanza del quale si giunge ad una paralisi della trattativa in tutto e per tutto simile a quella che si verifica quando l’intensità della circolazione automobilistica supera una certa soglia: in entrambi i casi si tratta di situazioni che richiedono l’affidarsi, almeno provvisoriamente, ad un’autorità esterna (come quella del vigile urbano).

È quindi intervenuto Marco Maria OLIVETTI, dichiarando il proprio sostanziale accordo con quanto sostenuto da Morelli e Zamagni, i quali hanno mantenuto il loro discorso sul piano di una riflessione esclusivamente finalizzata ad una gestione «operativa» del conflitto: più complessa, secondo Olivetti, una presa di posizione rispetto alla relazione di Mathieu, che ha inteso esplicitamente collocarsi su un piano propriamente «filosofico» (qualunque significato si voglia attribuire a tale termine evidentemente plurivoco). Nell’argomentazione di Mathieu, infatti, Olivetti ha notato una strana combinazione di elementi umani (o addirittura umanistici) e non, che dà luogo ad una significativa ambivalenza: per un verso, persino l’identità dei numeri viene ricondotta dal relatore ad una «posizione» dell’identità da parte di qualcuno; per altro verso, Mathieu mostra ripetutamente di voler abbandonare un riferimento esclusivo all’uomo e di aspirare ad un discorso totalizzante. Olivetti si è chiesto se in tale ambivalenza non debba leggersi un vero e proprio «conflitto», che richiederebbe forse una scelta metodologica radicale, e ha posto a Mathieu il seguente problema: ammesso che l’identità richieda necessariamente un’interpretazione non è chiaro perché tra queste interpretazioni si dia conflitto. Cosa esclude, in altri termini, che ciascuna interpretazione coesista con le altre? Perché (a parte l’ovvia risonanza di un’opera ricoeuriana) un conflitto delle interpretazioni? Perché si possa parlare di conflitto, ha proseguito quindi Olivetti, è necessario assumere innanzitutto che il conflitto sia un fatto «mentale»: risulta cioè imprescindibile l’assunzione di un osservatore, di un essere razionale. In secondo luogo è necessario che tale «mente» non sia neutra, ma tenda ad interpretare ciò che osserva in termini valoriali: questo è vero al punto che il conflitto è analiticamente o tautologicamente conflitto di valori. Persino la coppia «vero-falso», ad esempio, non presenta in sé alcun conflitto, ma diviene conflittuale solo quando è accompagnata dalla necessità di «far valere» la verità. Per poter parlare di conflitto, così Olivetti ha riassunto le proprie considerazioni, è quindi necessario un orizzonte mentale e un discorso in termini valoriali; il che esclude una riconduzione dell’analisi del conflitto ad un terreno pre-umanistico.

Dichiaratosi d’accordo sul fatto che la propria prospettiva implica un’ottica anti-umanistica, Mathieu ha replicato ad Olivetti che il motivo per cui si può parlare di confitto delle interpretazioni è che ciascuna si pone come interpretazione della medesima cosa: esse dunque tendono a negarsi reciprocamente.

Ha quindi preso la parola Stefano SEMPLICI, che ha proposto due osservazioni. Pur dichiarando il proprio accordo con la sostanza dell’intervento di Morelli, Semplici si è chiesto se l’affermazione secondo cui è necessario evitare che il conflitto scada in antagonismo non finisca con l’edulcorare il concetto di conflitto. Quest’ultimo, infatti, si innesca nel momento in cui si percepisce qualcosa come intollerabile relativamente alla propria identità; il che, pur non implicando necessariamente uno scontro per la vita e per la morte, è antagonismo. In questo senso l’interpretazione del conflitto in termini non antagonistici rischia un livellamento interpretativo del conflitto sulla percezione dell’alterità (che, in effetti, non comporta di per sé antagonismo).
La seconda osservazione di Semplici, relativa all’intervento di Zamagni, ha sottolineato l’opportunità di integrare l’analisi del mercato con una riflessione sull’altra grande invenzione del “moderno”: lo Stato, che, come Zamagni ha immediatamente riconosciuto, può esser ricondotto al modello gerarchico di gestione dei conflitti. Semplici ha quindi rimarcato come accanto alla crisi del mercato debba essere presa in considerazione anche la crisi dello Stato, quale strumento di risoluzione di conflitti di identità, e della convinzione per cui, una volta neutralizzato il conflitto all’interno dello Stato, rimanga solo il problema della guerra tra Stati (convinzione comunque già problematica nella modernità, da Hobbes a Hegel): oggi, infatti, non sono più nemmeno gli Stati gli attori della guerra. Risulta dunque imprescindibile un’analisi del conflitto sotto il profilo politico, che presenta oggi, secondo Semplici, le ricadute più drammatiche.

Nel riprendere le suggestioni emerse dal dibattito, MORELLI ha innanzitutto approfondito la domanda relativa alla possibilità che la scelta di lavorare su tre concetti – pace, conflitto e guerra (o antagonismo) anziché su due (pace, guerra) si traduca in un’edulcorazione del concetto di conflitto. Quale che sia la risposta, secondo Morelli, è un rischio che vale la pena accettare di correre, visto che i rischi derivanti dall’appiattimento del conflitto sull’antagonismo sono ancora più elevati. Identificare conflitto e antagonismo significa infatti lavorare sull’assunto di base per cui le relazioni sociali sono regolate da processi antagonistici. Ma, se questa ipotesi fosse vera, non dovremmo esser capaci di un comportamento diverso da quello antagonistico: il che davvero non sembra, come dimostrano le considerazioni esposte in precedenza, e ben radicate nei fatti, circa l’esser fondativa della relazione con un’alterità in ordine alla costituzione dell’identità propria. È perciò importante sottolineare, secondo Morelli, che la distinzione tra conflitto e antagonismo non implica alcuna ipotesi moralistica e che proprio per questo assume un interesse sotto il profilo operativo.
L’action research di Lewin, per esempio, si muove su più livelli: non è possibile conoscere, né pensare di cambiare alcun gruppo sociale senza farne parte, perché esiste una dimensione endogena di ogni processo evolutivo, tale per cui le condizioni per svilupparsi sono solo quelle che il sistema stesso offre. D’altro canto non ci si deve muovere solo sulla persistenza, perché i sistemi sono evolutivi, ossia è possibile intervenire su di essi aprendosi alla dimensione esogena, purché appropriata a quella endogena. Riprendendo poi la definizione di Bateson, secondo cui la vita è «differenza che genera differenza», Morelli ha voluto rimarcare come l’antagonismo è sempre solo potenziale. È sempre dato, infatti, un margine aperto per l’educazione e l’educabilità, che è in grado di portare il sistema ad evoluzioni positive, come dimostra proprio l’esempio del mercato quale detonatore di conflitti: esso si costituisce, infatti, come terzo, e proprio lo spazio del terzo – lo spazio, cioè, tra antagonismi contrapposti – è quello indispensabile a garantire una gestione efficace del conflitto.
All’obiezione di SEMPLICI, che ha ribadito la propria difficoltà relativa all’utilizzo del termine “conflitto” per una definizione quale quella di vita come «differenza che genera differenza», MORELLI replicato richiamando l’origine etimologica del termine conflitto rifacendosi al Lucrezio del De rerum natura, secondo cui cum-fligere è quel rapporto del seme alla terra che genera la pianta. Se, quindi, il conflitto va visto come incontro capace di generare un terzo, la necessità primaria è quella, ha concluso Morelli, di attribuire un significato positivo al termine.

A queste considerazioni si è riallacciato VALENZA, che ha rimarcato come anche il termine «pace» andrebbe ridiscusso. La pace, cioè, non può essere pensata solo come ideale auspicabile e non realizzabile, nei confronti del quale la guerra sarebbe l’antitesi e il conflitto il terzo. Puntualizzazione accolta da MORELLI, che ha osservato come lo stato di pace, inteso come sistematica quiete, è considerato, ad esempio a livello psicologico, come fortemente ansiogeno.
MATHIEU ha ritenuto opportuno precisare la propria riserva nei confronti del termine «antagonismo» (che meglio sarebbe definire come «conflitto distruttivo») in quanto derivato dalla tragedia greca, nella quale protagonista e antagonista esprimono un conflitto tra valori eminentemente positivi (come Creonte e Antigone): con buona pace di Kant che riteneva impossibile il conflitto tra doveri perfetti.

Gianluca SADUN BORDONI ha sottolineato la necessità di distinguere tra l’identità ontologica, quale insieme delle proprietà necessarie, e quella psico-sociale, relativa alle proprietà contingenti. Secondo che si parli dell’una o dell’altra il significato dell’identificazione, e dunque dell’atto di cui parlava Mathieu, cambia radicalmente: nel primo caso, infatti, esso coincide con una scoperta, nel secondo con una costruzione (ossia con un atto in senso pieno). Un’unica entità sotto il profilo ontologico (Venere) può essere in funzioni di due identità contingenti diverse (Stella del mattino, Stella della sera). Sulla base di questa distinzione, Sadun ha domandato a Zamagni se pensare la mediazione del conflitto a partire dal mercato non significhi presupporre identità già date, cioè un ordine di preferenze chiaramente definito: presupposto messo in crisi, secondo Sadun, dal discorso di Morelli. Se, infatti, è vero che l’identità si costituisce nella relazione, nessuno è in grado di definire la propria identità – e perciò nemmeno il proprio ordine di preferenze – indipendentemente dalle relazioni sociali. La difficoltà tipica della società contemporanea nella gestione dei conflitti consiste nella mancanza di quadri di riferimento (esemplare la crisi della famiglia) all’interno dei quali costruire identità ascrittive: mancanza che è all’origine del carattere dilacerante dei conflitti identitari.

ZAMAGNI ha chiosato quanto detto da Sadun Bordoni, osservando che ciò è a suo giudizio vero relativamente alla svolta che il pensiero economico riceve dopo la rivoluzione industriale. Fino a tutto il ‘700 invece, Adam Smith compreso, il mercato è visto come luogo di civilizzazione e di umanizzazione dei rapporti. Proprio perché le preferenze non sono pre-date, il mercato crea identità e civiltà: e non è un caso che le civiltà senza mercato si presentano come intrinsecamente belligere. La svolta va rintracciata nel momento in cui con l’avvento del sistema di fabbrica si impongono, per ragioni tecnico organizzative, modelli teorici che prevedono un’identità non modificabile: esemplari l’antropologia di Mandeville e, prima ancora, il De cive di Hobbes. È dunque priva di fondamento l’identificazione mercato-rivoluzione industriale, perché il mercato nasce tre secoli prima.
L’opportunità offerta dalla situazione contemporanea consiste, secondo Zamagni, nel fatto che le trasformazioni in atto stanno riportando il mercato alle sue origini: la crisi della gerarchia d’impresa nell’era della globalizzazione (dalla quale non si esce con il sistema dell’«incentivo» forma mascherata di autorità) rende possibile l’assunzione di un’ottica che torna a vedere nel mercato uno strumento di umanizzazione, i cui elementi non sono più solo libertà ed eguaglianza, ma anche la fraternità, posto che, per quanto possono confliggere i fratelli non arriveranno mai a distruggersi. Il principio di fraternità, secondo Zamagni, è quello che consente agli eguali di essere diversi e che rappresenta il complemento del principio della solidarietà, che rendere i diversi eguali.

Riprendendo le osservazioni di Sadun Bordoni, MATHIEU ha distinto la differenza ontica tra due cose e la differenza ontologica di una cosa con se stessa. Per esistere una cosa deve esprimersi a diversi livelli: e tra i livelli diversi si annida la possibilità del conflitto. L’identità culturale (utilizzata esplicitamente da Mathieu come sinonimo di quella che Sadun Bordoni definiva identità psico-sociale) si esprime in atteggiamenti che però possono essere non compatibili con quelli altrui. Il sacrifico umano o l’infibulazione, ad esempio, sono modi autentici di esprimere identità culturali, ma difficilmente compatibili con i nostri. Non è quindi detto che l’identità ontologica di una cosa con se stessa coesista pacificamente con l’identità ontica tra cose diverse.

MORELLI ha successivamente sostenuto, riallacciandosi alla risposta di Mathieu ad Olivetti, che l’ambito pre-umanistico può apportare un notevole contributo al dibattito sul conflitto: ciò viene testimoniato dalle ricerche delle scienze della vita (ossia la paleoantropologia, le neuroscienze, la psicologia della cognizione, le scienze del linguaggio ecc.), anche se nel caso specifico si tratta di un’area disciplinare ancora non ben definita, quella cioè che si occupa dei processi evolutivi del vivente. Il fondamento stesso del vivente è, in tale ottica, non fissista. Grazie agli studi di Edelman, si ottiene una verifica importante del fatto che l’emergere della coscienza ha a che fare con un processo evolutivo sistematico basato su selezione, riconoscimento e «rientro», e che tale processo modifica persino la struttura fisica della materia. È stato dimostrato che l’apprendimento di una certa attività (per esempio suonare uno strumento) altera fisicamente la parte del cervello interessata. Ciò allude ad un excursus continuo tra l’infinitamente “micro” (i microbi per esempio) e l’infinitamente “macro” (le culture umane), che mette radicalmente in discussione il dualismo metodologico.
Rispondendo a Sadun Bordoni, Morelli ha poi evidenziato che l’affermazione di una crisi delle istituzioni non deve nascondere le strutturali inadeguatezze e rigidità dei modelli passati. È significativo che la prospettiva della prima cibernetica si basava sul modello «programma, esecuzione, controllo», mentre la cibernetica di second’ordine è oggi basata su «autonomia, adattamento ed emergenza». Con ciò si è preso atto della complessità; e, sebbene non siano stati ancora elaborati gli strumenti operativi per mettere a punto i dispositivi di mediazione adeguati, si è però capito che uno dei problemi fondamentali del conflitto – prima di ogni discussione relativa alla sua soluzione – è il suo riconoscimento. Accedere al conflitto è, in quest’ottica, un valore, ma richiede altresì un grande investimento. Si presenta perciò la necessità di un mutamento di impostazione a tutti i livelli, e al riguardo Morelli ha portato l’esempio del rapporto didattico, non impostabile più in senso gerarchico, ma concepibile solo in un quadro di collaborazione. In tale orizzonte si rende altresì necessario il cambiamento delle strutture di mediazione, quali, per restare nello stesso esempio, il setting di un’aula.
Nella fraternità, ha quindi concluso Morelli facendo riferimento alle considerazioni di Zamagni, è possibile un grado molto alto di conflittualità, reso possibile proprio dalla solidità del frame.

VALENZA quindi, riprendendo la questione dello Stato sollevata da Semplici e le considerazioni di Sadun Bordoni sulla gerarchia nell’ottica più ampia del rapporto tra conflitto e regole, ha voluto evidenziare che le articolazioni dello Stato moderno possono essere descritte anche come tentativi di trovare sistemi di gerarchia in grado di risolvere i conflitti. Affrontando allora il tema della crisi dello Stato, si è chiesto se la necessità di pensare a nuove forme di mediazione significa considerare le istituzioni attualmente presenti sulla scena in funzione di «terzo» (per esempio le Nazioni Unite) superate da forme nuove e diverse rispetto a quelle classiche (per esempio la Comunità di S. Egidio).
Sulla base di tale spunto SEMPLICI ha nuovamente ribadito la necessità di non ricondurre ogni antagonismo a conflitto, ottica questa che conduce ad interpretare anche la crisi delle istituzioni a livello molto profondo.
MORELLI ha allora risposto evidenziando anzitutto la necessità di ammettere la possibilità del fallimento. Tale presa d’atto significa infatti l’ammissione immediata che l’evoluzione dei processi di conflitto dipende dalla cultura, ossia che la categoria di relazione, luogo di tutti i problemi ma anche luogo di tutte le possibilità, è assolutamente centrale. E su tali basi sono individuabili, secondo Morelli, nuovi strumenti di mediazione, come per esempio la diplomazia popolare, che, nonostante le enormi difficoltà, si è rivelata fruttuosa nel caso dei Balcani. Anche la cosiddetta ipotesi di Parigi per il conflitto israelo-palestinese, muove significativamente dall’assunto che l’antagonismo è praticato e predicato da una minoranza.
Riprendendo le considerazioni di Semplici, ZAMAGNI ha quindi voluto sottolineare come di fronte alla possibilità di scadere nell’antagonismo si presentino due diversi atteggiamenti: uno che si traduce in un assetto istituzionale in cui tale scadimento viene ad essere soluzione di equilibrio evolutivamente stabile, e un altro che al contrario non ritiene l’antagonismo una soluzione di equilibrio. Le società occidentali contemporanee, secondo Zamagni, sono costruite sul secondo modello. Si tratta di una situazione osservabile mediante l’esempio dell’atteggiamento che i genitori possono assumere di fronte ad una lite tra i figli: determinare chi ha ragione e chi ha torto o, invece, far sapere che entrambi saranno puniti nel caso di bisticcio. La pena di morte, in quest’ottica, è il massimo dell’irrazionalità, perché in presenza comunque del massimo della pena, al criminale converrebbe la scelta del massimo del delitto.

L’ultimo intervento è stato di MATHIEU, che ha voluto sottolineare il problema di rendere operativa ed efficace, nei conflitti, la maggioranza pacifica cui si riferiva Morelli. E non a caso conflitto si determina non solo tra popolazioni, ma tra popolazioni e rappresentanti istituzionali.

Svolgendo le considerazioni conclusive VALENZA ha infine osservato come, sulla base di quanto detto, conflitto ed identità per molti aspetti si sovrappongano; ha rimarcato dunque la necessità di pensare l’identità tra il vischioso e il fluido, al di là del fissismo: di pensare cioè identità come movimento.

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